Grandaddy – Last Place (2017)

di Mariangela Santella

Mi costa davvero molto ammetterlo, e vorrei non fosse mai successo, ma c’è stato un periodo della mia vita in cui anche io ho guardato “Tre metri sopra il cielo”. E quale ragazza in piena fase adolescenziale negli anni 2000, non ricorda la scena in cui i protagonisti si baciano per la prima volta in quella stanza dai muri spogli, con la luce soffusa, al riparo dalla musica techno del resto del locale, mentre in sottofondo suona He’s Simple, He’s Dumb, He’s the Pilot? Sicuramente la scelta del film è opinabile, per usare un eufemismo, ma la canzone dei Grandaddy era perfetta per quella scena e soprattutto per far sognare a tutte un bacio del genere.

Fortunatamente Jason Lytle e compagni hanno deciso di farci sognare ancora e di farci un bel regalo per questo 2017: un disco nuovo di zecca dal titolo “Last Place”. Tornano così a suonare il loro alternative rock di impronta profondamente americana attraverso 12 brani, la cui opening track, Way We Won’t, riesce perfettamente nell’intento di sancire il loro grande ritorno. Si tratta di un brano in perfetto stile Grandaddy e sembra che il tempo non sia mai trascorso. Brush with the Wild ha un ritmo trascinante e un finale alquanto psichedelico, il che lo rende uno dei pezzi che preferisco. Più avanti, in Oh She Deleter, troveremo un brevissimo intermezzo musicale che lo riprende, rallentandone però il ritmo.

Evermore è pezzo caratterizzato dal synth pesantemente pop e ripetitivo che Jason stesso definisce un’ottima scusa per costruire una canzone intorno alla ripetizione. Nonostante ammetta di non avere un’idea precisa di che cosa volesse dire scrivendo questa canzone, l’immagine evocata sembrerebbe quella di un desolato e polveroso paesaggio pieno di dolore e di cuori infranti. Ed effettivamente queste immagini di tristezza vengono evocate spesso: ad esempio anche in The Boat is in the Barn aleggia un’aria di malinconia dovuta ad un amore evidentemente ormai finito (“It’s like you’ve never meet me here after all” e “But now my love ain’t gone, the boat is in the barn“).

La traccia che preferisco è Chek Injin: suona in modo più potente, quasi punk, e sulle note di “Please keep going, please keep fucking going“, va in una specie di corto circuito sonoro, provocato dallo scontro stridente tra chitarra e sintetizzatore, che danno poi inizio, come fosse un’unica canzone, alla successiva I Don’t Wanna Live Here Anymore. Questa è sicuramente la parte che ho trovato più interessante in tutto il disco in quanto rappresenta una sorta di “punto di rottura” e perchè adoro questo modo apparentemente spensierato di cantare, anche se ciò di cui si sta cantando è un amore finito o qualcos’altro di doloroso.

That’s What You Get for Getting Outta Bed e This is the Part sono dei pezzi più lenti, i quali conducono a Jed the 4th. Ecco che ritorna il robot amico Jed, personaggio caro a Jason, già incontrato in Jed the Humanoid, in Jed’s Other Poem (Beautiful Ground) e in Jeddy 3’s Poem, chiaro segnale di volontà di continuità con i dischi precedenti. Si tratta di una metafora del bere e degli effetti dell’alcool che Jason tiene a ricordare e a sottolineare: “You know it’s all a metaphor for being drunk and on the floor“.

L’album è quasi agli sgoccioli quando inizia A Lost Machine, in cui la band si scatena in un rock più classico e leggermente più deprimente, e infine con Songbird Son, canzone conclusiva di tracce caratterizzate da sonorità a tratti artificiali e a tratti più classiche, da momenti di estrema delicatezza ed intimismo, accentuati dai testi intensi e dalla bella voce del frontman. Ci auguriamo non spariscano ancora!

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