David Crosby – Lighthouse (2016)
Diavolo (o angelo, a giudicare dalla voce) d'un uomo. Prima impiega diciotto anni, il tempo che un figlio diventi grande, per dare un seguito a If I Could Only Remember My Name, e manca il bersaglio. Poi lascia passare un altro quarto di secolo, e cava fuori un disco, Croz, splendido nella scrittura, a dir poco incerto nei suoni, come se fossimo ancora nella patina laccata degli Ottanta. Passano solo due anni, e David Crosby, anni settantacinque, un fegato trapiantato, alle spalle alcuni quintali di polveri chimiche consumate, tira fuori fuori un disco che se non può raggiungere l'intensità emotiva epocale di If I Could, (allora tutta la West Coast andò a dare una mano al baffone per speziare al meglio il capo d'opera), se non altro ne è, finalmente, il degno seguito. Il segreto era lì, a un palmo di mano: sottrarre. Lasciar di nuovo scorrere libere le melodie costruite sulle sue “weird songs”, ovvero brani che armonicamente a volte sono dei rompicapo, e all'ascolto dei capolavori, riprendere in mando la sua chitarra tutta trucchi, accordature impossibili, accordi presi chissà e chissà come dove a spasso per il manico. Fare David Crosby insomma, potendo contare anche sul piccolo miracolo, condiviso con l'ex sodale Neil Young, di una voce miracolosamente intatta, forse ancor più bella di prima, se non altrettanto gonfia di armonici naturali. Si parte dirtti con un piccolo capolavoro,Things We Do For Love, si vaggia tranquilli su folate di hammond b-3, rinforzi vocali femminili, gran tintinnare di corde superbe. E i testi indagano con saggia, mai petulante saggezza sugli anni che sono passati, e su quello spicchio di futuro che teniamo ancora nascosto, tante volte ci fosse davvero. Ben tornato, vecchio tricheco. (Guido Festinese) Fonte
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