Joseph Arthur - The Family (2016)
C’era una volta un pianoforte. Uno Steinway Vertegrand del 1912, nobile e austero come quello che troneggiava negli studi di Abbey Road. Per un secolo è appartenuto alla stessa famiglia, in una villa da qualche parte nel Connecticut. Joseph Arthur l'ha comprato da un restauratore di Brooklyn, l'ha fatto portare nel suo studio, l'ha salvato dagli allagamenti quando l'uragano Sandy si è abbattuto su New York. E appena si è messo a suonarlo, le canzoni di "The Family" hanno cominciato a sgorgare come un torrente in piena.
"È come se queste storie fossero state lì ad aspettarmi", racconta. "Forse erano chiuse in quel pianoforte. O forse comporre su quello strumento è stato come una liberazione". Che sia stato il riscatto dalla frustrazione delle lezioni di piano prese da ragazzino o l'eco dei fantasmi nascosti nel vecchio Steinway, quel che è certo è che la musa di Arthur ha ritrovato ancora una volta la propria voce. Misurandosi con un tema tutt'altro che semplice da affrontare (oggi più che mai) come la famiglia. O, per dirlo con le sue stesse parole, "il modo in cui le dinamiche familiari ci formano e fanno di noi quello che siamo".
Se alle note del pianoforte spetta definire l'ossatura dei brani, la veste sonora che le avvolge non lascia spazi vuoti, tra ritmiche rotonde, graffi elettrici e impasti vocali. Tutto gestito in prima persona da Arthur, che per la realizzazione del disco si è fatto carico letteralmente di ogni elemento (dalle chitarre alle tastiere e alla batteria, oltre ovviamente a piano e voce).
Dietro al mixer c'è Tchad Blake, come era già accaduto ai tempi di "Redemption's Son", ma il suono corposo del disco porta più alla memoria le atmosfere di "Our Shadows Will Remain". Con l'icona di Lou Reed sempre ben presente davanti agli occhi (vedi l'iniziale "The Family"), il songwriter americano imprime il proprio marchio su un album dall'impianto compatto, in cui il trascolorare dei brani è fatto soprattutto di dettagli (dalle inclinazioni pop del singolo "Machines Of War" al passo più spedito di "Hold On Jerry", passando per l'accentuarsi dei beat sintetici in "When I Look At You").
L'album di famiglia di Arthur ha una vocazione corale, alla maniera della saga raccontata da Ben Cooper nella sua trilogia a firma Radical Face, "The Family Tree". "In questo disco non c'è niente che nasca da un giudizio sugli altri", spiega. "È fatto di storie raccontate da voci differenti e tempi misteriosi, che spero possano entrare in risonanza con qualsiasi famiglia, dappertutto". Una vicenda non strettamente autobiografica, insomma, anche se intessuta di ricordi personali. Una vicenda in cui un posto centrale spetta all'incombere della seconda guerra mondiale, che attraversa i brani raccontando la separazione ("Daddy, The War Machine"), la perdita ("The Flag") e in ultima analisi la brutalità stessa della natura umana ("Machines Of War").
I riverberi abrasivi di "With Your Life" potrebbero appartenere agli Shearwater, il falsetto di "Ethel Was Born" chiama in causa l'ombra di Neil Young. È grazie a un trittico di ballate, però, che "The Family" si riallaccia ai momenti più intensi della discografia di Arthur: "You Wear Me Out" è il primo brano scritto per l'album, il catalizzatore intorno a cui tutto il progetto ha preso forma; "Wishing Well" è un inno ai sogni e alle speranze dell'adolescenza, abbandonati come monetine sul fondo del pozzo dei desideri di un centro commerciale; "You Keep Hanging On" è una lettera d’amore scritta con l'inchiostro della fatica di ogni giorno, che si dipana su una trama acustica sostenuta dalle percussioni.
"Tutte le famiglie felici si somigliano, ogni famiglia infelice è disgraziata a modo suo", recita la citazione di "Anna Karenina" posta da Arthur in apertura del disco. "The Family" è la famiglia da cui vorresti solo fuggire, come in "They Called Him Lightning", e al tempo stesso la famiglia pronta a riaccogliere sempre nel suo abbraccio ("Endless mercy/ Hold me now", invoca la litania in coda alla title track). Soprattutto, è il luogo in cui il sacrificio si rivela il solo modo di amare fino in fondo: "You say love is a church and a crucifix/ It will kill us in time after saving us", riflette Arthur in "You Keep Hanging On", e forse è proprio questo il cuore della questione. "Amore e perdita. Disfunzionalità e resa. Mancanza di speranza e violenza. E quello che a volte ci permette di trascendere tutto questo. Lasciare che le cose che a un certo punto ci hanno abbattuto diventino le stesse cose da cui possiamo trarre la nostra forza". (Mia valutazione: Distinto)
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