Andy Shauf - The Party (2016)
di Lorenzo Righetto
Da sempre le canzoni di Andy Shauf hanno il raro potere di trasportare l'ascoltatore nelle storie che raccontano, o, in questo caso, anche solo nelle brevi epifanie quasi oniriche con cui si potrebbe descrivere questa "festa", il classico house party americano: la ragazza che balla, sola, sotto gli occhi di tutti ("Eyes of Them All"), la coppia sempre sull'orlo del litigio ("The Worst in You"), il corteggiamento fuori luogo ("Quite Like You").
Improvvisamente ti trovi in quella casa del Canada di provincia, quelle case che sembrano sempre uguali da quando esiste la televisione, moquette beige, infissi bianchi, una pianta nell'angolo. Queste canzoni, che potrebbero entrare benissimo nel nuovo film di Noah Baumbach, e sonorizzare uno dei suoi ralenti, accompagnare il primo piano del faccione triste e arrogante di Jason Schwartzman nella sua ultima crisi esistenziale, raccontano del modernariato sonoro costruito da Andy Shauf nello scantinato dei genitori - o, perlomeno, prima di questo "The Party", sponsorizzato dalla Anti, perfetto approdo per le velleità classiche del canadese.
Qui, più che l'Elliott Smith che lo perseguita, spettro evidente in tutta la sua musica, Andy Shauf è infatti riuscito a realizzare il suo classico personale, finora costretto soprattutto dai mezzi tecnici artigianali: una scrittura delicatissima, che spazia dal Motown vellutato di "Early to the Party" e dal crooning da perdente di "To You" alla metafisica sardonica, Harrison-iana di "Begin Again" e della psichedelia da Magical Mystery Tour di "The Magician".
Questo è il primo disco di Andy che, pur suonato ancora praticamente per intero da lui stesso (unica eccezione gli archi), ha usufruito di uno studio di registrazione e di tutti i passaggi professionali del caso, e infatti una delle principali "meraviglie" del disco, al di là dell'ovvia qualità della scrittura, è proprio il suono, una trama avvolgente e piena di significati, di eleganza dissimulata ("Quite Like You", "To You") e di momenti emozionanti (gli archi di "Martha Sways"), in cui è palpabile come tutto sia frutto di un'unica volontà, di un'unica mano. Acustica, pianoforte, basso e batteria parlano la stessa voce, quella melliflua e sommessamente inquisitoria di Shauf.
Malinconia e straniamento da "generazione perduta" la fanno da padrone in "The Party", ma Shauf guarda ai coetanei che ridono, bevono, si guardano con imbarazzo le scarpe, con simpatia e coinvolgimento - in questo "The Party" apparentemente decadente e infinito, il cantautore del Saskatchewan dipinge, come se la memoria fosse una scenografia, sprazzi di vita incerta e a suo modo ridicola, quella che effettivamente le persone vivono.
E così non stupiscono le fugaci esultanze di "The Worst in You" o di "Eyes of Them All", al cospetto della bellezza rassicurante che si può vivere ogni giorno, in un turbine empatico che termina con il lento imbarazzato e a suo modo romantico di "Martha Sways". Pur nella patina vintage, oltre che più puramente classica del disco, Andy sa certamente parlare all'ascoltatore del suo tempo.
I nostalgici di Elliott Smith, invece, cercheranno il dramma, la rabbia, ma non li troveranno in "The Party": solo un'acquiescenza letteraria, di chi guarda ai suoi personaggi con partecipazione (senza negare dediche tormentate, come l'ossessiva "Alexander All Alone"), ma con il distacco di chi è oltre la lotta e dentro una prospettiva più matura di scoperta e accettazione.
Questo è il calibro dello stato artistico raggiunto da Andy Shauf in questo suo nuovo disco, ed è percepibile nella qualità senza tempo delle sue canzoni: un disco a cui si tornerà anche tra molto tempo, quando quest'età sarà finita (?). (Mia valutazione: Distinto)
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