Radiohead - A Moon Shaped Pool (2016)
“C’eravamo tanto amati”. Ma ora basta. I Radiohead sono… cosa sono i Radiohead? Una tra le più innovative band degli ultimi vent’anni? Un fenomeno? Un geyser di hype? Tutto assieme? Forse abbiamo trovato una quadra. E ad ogni disco, da qualche anno a questa parte, la menata è sempre la stessa. Azioni commerciali geniali a furor di popolo con tanto di download gratuiti o quasi (ma che fecero perdere la pazienza anche a Marc Ribot, tanto da dedicar loro, in maniera piuttosto diretta, un brano dei Ceramic Dog intitolato non a caso “Masters of the Internet”), edizioni deluxe da buttarci tutto lo stipendio – il qui presente lo sa bene – e all’alba del 2016, sparizioni dall’internet fino a creare convulsioni a tutti quanti.
Ma se finora il deleterio essere anomali anche in campo di marketing trovava sponda in dischi di una certo spessore oggi non si può dire lo stesso. Almeno io. C’è già chi si straccia le vesti per la bellezza intrinseca di “A Moon Shaped Pool”, nuova fatica della banda di Yorke e Greenwood, ci sono altri che latrano al vento frasi come “sono la band più sopravvalutata del mondo” e via così. Che bello il mondo di internet. Bello, come una sontuosa torta alla merda. Ma non divaghiamo.
Io sto lì, nel mezzo, ad assaporare un pasto amaro, a chiedermi se sia come fu con “In Rainbows“: primo ascolto PANICO, secondo ascolto HEY!, terzo ascolto AMORE PURO. E invece no. Ad ogni ascolto guardo il mio tatuaggio dedicato a “Kid A” e sto sempre peggio. Sì, li ho praticamente tirati fuori tutti, i dischi della band dell’Oxfordshire, e sapete perché? Perché questo disco pullula di outtakes. O b-sides. O qualcosa che assomiglia molto a questo tipo di roba. Ma un disco è pur sempre un disco, e va sviscerato a dovere.
Ci ho provato a godere dell’acustica sontuosità a là “Hail To The Thief” dell’opener “Burn The Witch“, ma l’immobilismo di chitarre e archi con annesso sentore di ridondante mi ha bloccato, anzi, paralizzato. Il testo è puerile (checché ne dicano in molti), e da Yorke non me lo aspetto, passo oltre. “Daydreaming” ci porta dalle parti di “Amnesiac“, ma senza il pathos dell’ambiente angusto di quel capolavoro, tutto minimal, in silenzio, afflati vocali, sensazioni di vuoto a ripetersi senza un perché. Ad assomigliare a sé stessi gli ‘head non ci guadagnano un granché, poiché la forza di questa band è sempre stata un’altra, ma ci siamo persi per strada, ammetterlo non sarebbe un male. “Decks Dark” mi da ragione, perché non appena smettono di guardarsi allo specchio volano via, con i cori spaventosi, le chitarre che grattano sottopelle e la splendida sensazione di orrore strisciante che serpeggia dalle orecchie al cuore, con il piano a spaccarti i nervi in diecimila parti, ed è la medesima sensazione che provo con “Ful Stop“, che è un maledetto capolavoro, nel suo essere (di)storta, malevola e insanguinata da synth acidi e ‘sto giro di basso che ti ammazza lì per lì. Tutto annega con l’irritante sintomo acustico e folkeggiante di “Desert Island Disk“, svenevole tanto nella melodia quanto nei suoni e negli incastri vocali di “Identikit” che darebbero i nervi al più ieratico dei monaci. “The Numbers” inizia benissimo, tanto che ti par di sentirli giocare a fare i Wilco, e pure bene, poi partono gli archi, stucchevoli come non mai, svolazzanti, tremendi, allucinanti nel senso più brutto possibile ed immaginabile e via, altra pallottola sprecata (ma la stronzata che assomiglino ai Coldplay tenetevela per voi, grazie). E tutto fila lento e destabilizzante, con il desiderio di skippare, cosa che faccio con l’immobile “Present Tense” e con l’altra dal titolo infinito – “Tinker Tailor Soldier Sailor Rich Man Poor Man Beggar Man Thief” – che ti straccia letteralmente il cazzo senza pietà alcuna, fino alla già conosciuta (su “I Might Be Wrong“) “True Love Waits“, con l’incipit kidAiano, che, forse, al terzo ascolto, mi da una soddisfazione. Ma non basta. Sarò io ad essere troppo esigente? Forse mi aspettavo troppo? Anche. Forse non è il caso di rimestare nei cassetti e tirar fuori roba che suona vecchia e molle anche quando è bella? Chi lo sa?
Intanto io sono pronto alla lapidazione. Ma a mia discolpa posso dire che il disco che avevo bollato al primo ascolto come “un album di merda”, è diventato a poco a poco un disco mediocre, non orrendo, sia mai, ma neanche bello, un’eco lontana di quanto ho amato i Radiohead, con tutti i sintomi che mi han lasciato dentro, fiaccati dagli anni (i loro) e dalla poca pazienza (la mia) di sopportare un corollario immenso per lavori di poco conto. Ma se volete un’ultima soddisfazione posso dirvi “Nigel Godrich è un gran produttore“. Se può bastare. (Mia valutazione: Distinto)
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