Matt Elliott - The Calm Before (2016)

di Fabrizio Zampighi

Settimo album solista (senza considerare la raccolta di outtakes del 2009, Failed Songs) per Matt Elliott: la quiete prima della tempesta, verrebbe da dire parafrasando il titolo del disco e di una title track che parla di un imminente temporale descrivendo riflessioni personali e fogli di carta che svolazzano in una stanza. Una buona metafora anche per la musica dello stesso Elliott, da sempre intesa come un pulsare di suoni in movimento tra stratificazioni folk e crescendo, approccio minimale e voci fruscianti. Un subbuglio che è anche geografico, perlomeno negli accenti che vanno a comporre lo stile musicale del musicista di Bristol: la Francia delle chanson, l’Est Europa, la Spagna delle chitarre flamenco, la malinconia minimale tipica di un certo folk americano, ma anche la contemporaneità garantita da un’indole disposta a farsi contaminare. Nell’universo elliottiano tutto è finalizzato a gestire la grana del suono, centro nevralgico e bagaglio emotivo di un autore che da sempre lavora veicolando umori e sensazioni, oltre che brani.
È quello che avviene, ad esempio, nei 14 minuti della già citata The Calm Before, in cui le immagini del temporale in arrivo diventano esse stesse una metafora («we all have ghosts and monsters dear, it’s best to give them a face»), con la voce dell’artista a seguire la melodia arpeggiata della chitarra e un intorno fatto di saliscendi di pianoforti appena abbozzati, sopracciglia d’archi, rumori in lontananza che mimano il suono irregolare del vento. Summa di un disco che, pur ampliando la cassa armonica delle melodie, riprende in parte il mood della trilogia discografica delle songs (Drinking Songs, Failing Songs, Howling Songs) affrontando tematiche scomode, come nelle choeniane The Feast Of St. Stephen e I Only Wanted to Give You Everything, rispettivamente incentrate sugli abusi legati alla religione e sulla tragedia che nasce dal sentirsi rifiutati. È tutto il disco, comunque, a funzionare, anche quando esplora sensazioni simil-ambient in brani come The Allegory of The Cave o nervose marzialità flamencate in una Wings & Crown in cui fanno capolino le chitarre elettriche e un’attitudine quasi noise in chiusura.
Produce con grande sensibilità David Chalmin, già al lavoro sul precedente Only Myocardial Infarction Can Break Your Heart, per un lavoro che ha l’indiscutibile pregio di mostrare un musicista capace di barattare il mestiere garantito dai molti anni di esperienza con la necessità vitale di fare una musica in cui credere ciecamente. Lo stile è definito e ormai riconoscibile, ma il risultato continua ad essere significativo e sorprendente. (Mia valutazione: Buono)

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