di Lorenzo Righetto Sembrava quasi il frutto di un’accurata ricerca scientifica, l’esordio di un paio di anni fa di Ellis Ludwig-Leone: una miscela dalla composizione studiata nei minimi dettagli ed eseguita mettendo insieme gli ingredienti in modo maniacale, quasi un prodotto di ingegneria genetica della musica popolare contemporanea, il suo compimento evolutivo. Musica popolare e colta, indipendente e mainstream, tutta riunita da un deus ex machina giovane e talentuoso, capace di trascinare e di immaginare un brano da Beyoncé in “Sonsick”, forse il migliore di quell’anno, quanto di farsi cantautore e interprete folk in “Methuselah”. In mezzo tanto i National, Sufjan Stevens, i Dirty Projectors quanto Philip Glass. Forse “era” fin troppo, “San Fermin”: ed è a questo che Ellis ha voluto mettere mano in questo secondo “Jackrabbit”, cercando un’identità sonora, non più mascherando il caos d’idee con un labile concept, come nell’esordio. Così, come nell’artwork, tutto il disco ...