Neil Young - After the Gold Rush (1970)
Cosa scegliere? L'elettricità epilettica di Everybody Knows This is Nowhere o l'ingannevole tranquillità agreste di Harvest? L'elegia notturna di Tonight's the Night o le canzoni da spiaggia deturpata (dell'anima) di On the Beach? Naturalmente il consiglio è di prendere tutto: ma se si decide di portarne a casa solo uno, tra i dischi del periodo "classico" del canadese, allora che sia After the Goldrush. Perché è il più equilibrato (almeno fino a Rust Never Sleeps, che però divide le due anime del nostro - acustica ed elettrica - in due facciate distinte); perché testimonia un periodo cruciale e irripetibile dell'ispirazione e della vita di Neil Young (giusto a ridosso del tour di CSN&Y); perché arricchisce il suono spigoloso dei Crazy Horse (vedi Southern Man) con i ricami di pianoforte di un diciassettenne Nils Lofgren. Perché Young lo canta portando al massimo dell'espressività la sua vocalità limitata e sofferta (da dove esce quel filo di voce strozzato con cui ti si piantano in cuore le prime strofe di Don't Let It Bring You Down?). Non ultimo, perché ci ricorda, con la naturalezza e l'abbandono di una confessione, che l'amore può spezzarci il cuore. Solo Ian Curtis, qualche anno dopo, lo saprà dire con altrettanta convinzione. (Mia valutazione: Ottimo)
(Yuri Susanna)
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