Faust - j US t (2014)

di Gaspare Caliri

È un pezzo che i Faust sono faustiani. Che non ci stupiscono. Probabilmente, dopo You Know Faust – dove c’era il beneficio del dubbio – niente è stato davvero memorabile, con qualche eccezione, evidentemente (Kundalini Tremolos nel peraltro evitabile C’est Com Com Complique, per esempio). In j US t – leggasi Just Us – lo fanno, ossia tornano a stupirci, per almeno due motivi.

Anzitutto non travestono la siccità di idee con la leggerezza del semi-serio (atteggiamento che Peron e Diermaier condividono, meno l’ex collega Irmler). Just Us appare subito per quello che è: un disco duro, molto introverso. I Faust sono chiusi nel loro mondo, che cita le forme libere ma meccanizzate dei This Heat (80hz). Secondariamente, in tutto j US t si dà ampio spazio all’improvvisazione, alla forma metamorfica. Non manca di certo, come del resto in tutti gli ultimi dischi, la grande, maestosa e ingombrante persona/personalità di Zappi, che domina il disco con le percussioni. Eppure in qusto caso l’estro di Peron equilibra l’ipnotismo con il cambiamento: la combinazione, finalmente, ci permette di tornare a dire che i Faust sono una grande band. Ancora di più: sono, a più di quarant’anni di distanza, ancora una grande band radicale, che sa mettere in piedi un raga visionario (Gammes), accelerare e rallentare la macchina del kraut, e ritrovare quello stato di grazia di alcuni passaggi (Nähmaschine) e tessiture che ricordano i paesaggi concreti raccolti distrattamente in Faust IV.
In definitiva l’album è più personale di Something Dirty, nonostante il duo dichiari che le tracce di Just Us sono solo basi, e invitino il pubblico e altri musicisti a suonarci sopra. Come nel New Japanese Festival appena passato in Italia, ogni bozzetto musicale può diventare pretesto per un momento significativo. Qui torna l’elemento ludico, specialmente nei paesaggi improvvisativi (Nur Nous). Se esagerassero su questo fronte, diventerebbe un disco naïf, trascurabile, una serie di esercizi. Invece c’è una tensione di fondo, tutta teutonica, ma appunto visionaria (Palpitations, con una chiusura degna dei Pink Floyd periodo “swinging London”), che non gli sentivamo da tempo. I Faust, ecco cosa è successo, sono tornati a descrivere la realtà – e per un album almeno hanno smesso di trastullarsi. (3/5 voto mio)

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