Thee Silver Mt. Zion Memorial Orchestra - Fuck Off Get Free We Pour Light On Everything (2014)

di Gianfranco Marmoro

Efrim Menuck, David Payant, Jessica Moss, Sophie Trudeau e Thierry Amar, ovvero la line-up attuale dei Thee Silver Mt. Zion Memorial Orchestra, uno dei tanti germi dei Godspeed You! Black Emperor. Il collettivo canadese più creativo e originale degli ultimi anni giunge a un nuovo capitolo della sua complessa e articolata produzione discografica. Per chi non li conoscesse, basti sapere che la loro musica è una liturgia, un post-rock aspro dove i violini e le chitarre stridono con la stessa intensità poetica del canto delle megattere: “Fuck Off Get Free We Pour Light On Everything” è il loro album, diciamolo subito, dove il gruppo mette in atto la miglior rappresentazione della sua arte.

L’estetica post-rock è quasi scomparsa, resta solo quell’insieme cacofonico e austero di folk, blues e rock che ha dato forma a uno dei più originali linguaggi sonori; un'enfasi scarnificata, un nuovo suono hardcore, che nei dieci minuti dell’iniziale “Fuck Off Get Free (For The Island Of Montreal)” si trasformano in pura bellezza. Qui il crescendo lirico è prima affidato a voci e suoni graffianti e poi corroso da timbriche color metallo e rock-blues che non alterano la costante evoluzione lirica.
“Fuck Off Get Free We Pour Light On Everything” è il trionfo dell’ispirazione, la banalità e la prevedibilità restano fuori dalla porta, Efrim Menuck e soci hanno sempre osato superare i confini, ma questa volta la grinta è fuori controllo con un’attenzione ai linguaggi più estremi. Dopo aver sconfinato nel metal nei primi dieci minuti dell’album, Thee Silver Mt. Zion Memorial Orchestra si gettano a capofitto nelle radici del blues con “Austerity Blues”: il fremito acustico dei primi minuti non vi inganni, il duello tra voce e violino che prende in mano il corpo lirico del brano è una delle intuizioni più eccitanti dell’album, la sequenza di timbri e colori dissonanti diventa la celebrazione più riuscita del caos, il brano si trasforma in un monolite sonoro che emette luce nera, il canto diventa sempre più disperato ("Signore lascia che mio figlio viva abbastanza a lungo per vedere quella montagna demolita…") e il suono sempre più ossessivo e granitico.

Archiviate le due sconvolgenti tracce iniziali (per un totale di 25 minuti circa), viene da chiedersi cosa altro possa offrire il nuovo album dei canadesi, ed ecco il rabbioso manifesto politico e sociale di “Take Away These Early Grave Blues” dove la voce diventa ancor più tagliente e anafettiva, mentre la musica si eleva verso toni post-sinfonici e apocalittici, che il breve interludio di piano e voci femminili (Jessica Moss e Sophie Trudeau) di “Little Ones Run” trascina verso toni più delicati. “What We Loved Was Not Enough” è il corpo centrale della più morbida e appassionata triade finale, qui il gruppo riconquista molte nuance degli esordi con una straziante ballad ricca di echi glam (quasi un incrocio tra Cockney Rebel, il primo Bowie e i Suede) che si intrecciano con il miglior post-rock. La presenza di ben tre stand-out tracks certifica la notevole caratura di questo ultimo album dei canadesi, che nei quattro minuti finali di “Rains Thru The Roof At Thee Grande Ballroom (For Capital Steez)” trova il tempo di ricordarci la grandeur degli esordi prima che il potere visionario di questo splendido insieme venga archiviato come uno dei primi punti fermi di quest’anno. (voto mio 3,5/5)

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