Swans - To Be Kind (2014)
Altro doppio disco altra corsa. A Michael Gira, patron assoluto e onorario degli Swans, non bastava “The Seer”, il colosso fatto di colossi che tanto fece parlare di sé due anni or sono. E’ ora la volta di “To Be Kind”, nuovo disco-mostro che prosegue la saga del progetto con i medesimi ingredienti del predecessore. Stavolta la voglia di stupire il ritrovato pubblico di vecchi e nuovi fan sembra però prevalere sull’ispirazione.
L’iniziale “Screen Shot” è anche il brano programmatico: andatura boogie-blues, litania scandita, fiacco saltarello gotico, crescendo verso un “tutti” chitarristico. Queste caratteristiche si ritrovano più o meno modulate nelle restanti parti. Il talking-blues sonnolento e letargico di “Just A Little Boy”, con tanto di voce invecchiata ad arte, di quando in quando prende slancio e forza, ma anche in questi brevi momenti è una pallida copia delle sfuriate di trent’anni fa. “A Little God In My Hands”, funk surreale Nick Cave-iano, di nuovo con un rosario autoindulgente, ci mette un po’ di spinta e di caos elettronico.
Un’altra litania, “Some Things We Do”, stavolta acustica e infestata di spettri vaganti di archi e stridii, suona più appropriata a iniziare dal titolo: le liriche semplicemente elencano “cose” da “fare” nella vita, e nel suo insieme il brano rende un discreto senso di apatia, forse il registro che rappresenta al meglio album e periodo creativo di Gira. I ben 34 minuti di “Bring The Sun/Toussaint L’Ouverture” sono invece perlopiù una delusione, di sicuro un’esagerazione, una fiacca incursione nella psichedelia fatta d’ipnosi di voci a ritmo blues, alternata a un crescendo corale con massimalismo alla Glenn Branca. Nella seconda parte Gira prende coraggio e alza la voce in uno sfogo dannato, ma i comprimari si limitano a strimpellare sottotono fino a una conclusione apocalittica, una “The End” annacquata e tirata per le lunghe.
Nuove pose indianeggianti-psichedeliche si sovrappongono a un reiterato pattern basso-batteria all’inizio del secondo cd, “She Loves Us!”, finendo per fare il verso alla “Marquee Moon” dei Television, quindi Gira prende di nuovo a intavolare un talking-blues petulante più che realmente brutale, uno shouting senza un flusso di coscienza shockante, poco più che la sceneggiata di un predicatore particolarmente euforico.
Altri apici di autoparodia sono toccati dalla maniacale e sincopata “Oxygen” e da “Nathalie Neal”, questa introdotta da un paio di minuti di balbettio da santone voodoo a cappella, forse la cosa più fascinosa dell’intero album. Tra le imitazioni di Glenn Branca, numerose e alla fin fine stucchevoli, quella più verace sta forse nella title track di chiusa, a sfasciare una lunga e tediosa ninnananna atmosferica d’introduzione, e in parte nei “tifoni” che chiudono la ballata apocalittica di “Kirsten Supine”.
Seconda massiccia ricapitolazione di carriera in due anni: stavolta - e già la prima era a rischio - è una portantina di trucchi, pose e consuetudini e non un album musicale. Non si discute la bravura magnetica e un po’ meccanica di Gira, ma la sua originalità; a suon di ripetersi imitando il gran burattinaio demonico che fu capitola in un ascolto placido senza direzione e necessità, senza genos. Ripetuta anche la formuletta degli ospiti di lusso: Little Annie e St Vincent (nel precedente erano Low e Karen O), Julia Kent arrangiatrice degli archi (prima era la Scarpantoni), il veterano Bill Rieflin come musicista aggiunto (il corrispettivo di Jarboe dello scorso album). Edizioni diversificate (anche doppio cd con Dvd, e triplo vinile), la proprietaria Young God solo per il Nord America, Mute per il resto del mondo. Artwork a cura di Bob Biggs - altri cinque infanti oltre a quello selezionato per la copertina ufficiale -, fondatore del magazine Slash. (3/5 voto mio)
Fonte | ondarock
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