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Visualizzazione dei post da ottobre, 2024

Time - Pink Floyd (1973)

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In genere si magnifica il genio di Syd barrett o le visioni di Roger Waters. Vorrei qui, per una volta, cantare, e a lungo, di David Gilmour, inglese di Cambridge, figlio di un professore di zoologia e di una montatrice cinematografica che poteva passare alla storia come l'uomo nomale che ha perso il posto della leggenda, l'ordinarietà nei panni del mito, ereditando dunque il testimone più scomodo. Invece no. E' andato oltre. E' diventato mito lui stesso, scrivendo pagine importanti, canzoni potenti come tuoni e assoli resistenti come il ferro. Solo che, per carattere, è rimasto sempre nell'ombra, dietro al suo strumento e a una band che non aveva bisogno di volti da incorniciare, perché la musica era già un quadro troppo grande. (M. Cotto - da Rock Therapy)

Captain Beyond - Captain Beyond (1972)

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Il mio impegno di scoprire più gruppi e artisti sconosciuti ma autori di dischi eccezionali inizia oggi. E inizia con quello che una volta si chiamava un supergruppo: musicisti provenienti da altre band che, a volte non lasciando definitivamente i loro gruppi di appartenenza, si riunivano per suonare in divertimento ciò che gli interessava di più. La storia di oggi ci porta a Los Angeles ad inizio degli anni '70. La grande stagione della musica californiana è al termine della sua spinta propulsiva, ma ha lasciato sul campo semi che germoglieranno per tanni. I musicisti del gruppo di oggi hanno storie particolari. Rod Evans è britannico, è stato il primo cantante dei Deep Purple, per i primi 3 dischi (quelli dell'avvio psichedelico, Shades Of Deep Purple e lo splendido The Book Of Taliesyn del 1968, e poi Deep Purple del 1969), ruolo che perde per Ian Gillian. Evans abbandona l'Inghilterra e va prima in Florida, dove prova la carriera solista, e poi vira in California, dove

Clap Your Hands Say Yeah - Only Run (2014)

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di Lorenzo Righetto Non è stata una reunion estemporanea, si vede, se i Clap Your Hands Say Yeah tornano con un nuovo disco dopo l’abbandono di due dei suoi membri, spingendosi inoltre fino a distribuirlo autonomamente, perlomeno nel Nord America. Il lieve cambio di sound, qui più aereo e sintetico e meno chitarristico che in passato, diventa così inevitabile, facendo assomigliare questo “Only Run” a un misto tra degli Antlers meno a fuoco e dei National senza i fratelli Dessner. È invece il cameo di Matt Berninger in “Coming Down” a rappresentare il fiore all’occhiello dell’album, per il resto testimonianza di un cantautore, Alec Ounsworth, alla ricerca ormai da tempo infruttuosa di un’impossibile maturità, laddove il fascino maggiore dell’esordio della sua band stava nella carica esistenziale della sua imperfezione, soprattutto nelle interpretazioni del suo frontman. In “Only Run” fanno da padroni, invece, una scrittura e un tono decisamente appesantiti (“As Always”, “Co

The Neville Brother's - Brother's Keeper (1990)

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di Silvano Bottaro Ci sono musicisti che a vent'anni hanno già detto tutto quello che potevano dire. Ce ne sono altri, invece, che a cinquanta suonati incominciano a dire le cose più importanti della loro vita. Il caso dei fratelli Neville di New Orleans è quanto mai sintomatico di quanto detto sopra. I Brother's, hanno percorso in silenzio e dignità la china di una fama ardentemente e meritatamente ricercata. Il successo del loro penultimo album, "Yellow Moon", è la testimonianza di una fede nella musica che va al di là delle mode o dei generi. Tra le altre cose, hanno il pregio di non poter essere facilmente catalogabili per genere. La loro musica non è mai stata inserita perfettamente in alcuno dei tanti compartimenti in cui è divisa la musica americana. Sembra infatti che, i negozianti non sappiano mai esattamente dove mettere i loro dischi. E' capitato di trovarli nei posti più impensabili: nella sezione country, in quella gospel... Questa confusio

The Knife - Shaking The Habitual (2013)

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di Andrea Hawkes Un capolavoro, ma non uno di quelli facili. Sono passati sette anni da Silent Shout e la fama di The Knife è andata via via aumentando, ma i due fratelli svedesi invece di capitalizzare il successo con un disco almeno in parte accessibile al grande pubblico scelgono la via più impervia, pubblicando quasi cento minuti di pura musica d’arte che offre pochi appigli immediati e ancor meno punti di riferimento. Quasi la versione europea ed elettronica di The Seer degli Swans. Un disco che è diffi cile da comprendere subito anche per gli appassionati di musica elettronica: quasi un terzo dell’album è costituito da drone dissonanti, i suoni sono diffi cilmente identifi cabili, i ritmi sono sempre spiazzanti, non esistono vere melodie e la voce è frammentata in ritagli che spesso s’interrompono nel momento risolutivo con urla ed effetti teatrali, ma una volta superato lo shock e il disagio iniziale Shaking the habitual si rivela in tutta la sua indiscutibile bellezza. I

E T I C H E T T E

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