Storia della musica #21

 Il power pop 

Tra i tanti filoni revivalistici degli anni ’70 il power pop è probabilmente uno dei più seminali, per l’influenza esercitata sulla musica cosiddetta alternativa, e allo stesso tempo uno dei più trascurati da pubblico e critica. Tratti distintivi del genere sono la passione per la canzone da tre minuti e un suono che è un cocktail dalle dosi più o meno variabili di jingle-jangle byrdsiano, armonie vocali ereditate da Beatles e Beach Boys e una componente hard rock più o meno spiccata (spesso mutuata dal suono degli Who). Dove il movimento roots andava a ripescare i suoni della tradizione pre-British Invasion il power pop proprio lì va a parare, immergendosi idealmente negli anni d’oro dei Beatles, del folk rock e del pop californiano.

Pionieri del genere sono, nei primi anni ’70, Big Star, Raspberries e Badfinger. Sfortunatissimi in vita e destinati ad un culto postumo smodato, i primi si formano sulle ceneri degli Ice Water di Chris Bell nel momento in cui al chitarrista Steve Ray subentra l’ex box-tops Alex Chilton: la coppia, litigiosa ma artisticamente sopraffina (nella miglior tradizione beatlesiana), pubblica solo tre album, ma quella discografia smilza eserciterà un’influenza enorme sui posteri. Allo splendido debutto di “#1Record” (1972) segue “Radio City” (1974), già parzialmente orfano di Chris Bell e infine “Third Sister Lovers” (1978), il più scuro dei tre, ultimo lascito artistico di una band allo sbando, destinato ancora una volta ad un’inspiegabile indifferenza. Eppure, come già accennato,quei tre dischi erano destinati a lasciare il segno: difficile immaginare i R.e.m o gli Heartbreakers di Tom Petty senza un disco come “Radio City” alle spalle e la sua revisione e relativa modernizzazione delle sonorità anni ’60.

Minori ma comunque piacevoli gli altri due pionieri del power pop: i Badfinger, veri e propri epigoni dei Beatles e i Raspberries, gli unici destinati ad avere un relativo riscontro commerciale e per questo ispirazione principale per i gruppi della seconda ondata del power pop, quella di fine anni’70: gruppi come Cheap

Trick, Knack, Shoes, Records, Nerves, i Beat di Paul Collins e i Flamin’Groovies di “Shake Some Action”. Un’ondata effimera, destinata a prosciugarsi coi primi anni’80 ma ricchissima di gruppi e di talenti minori, spesso legati ad un singolo pezzo, un intrigo di filologia musicale che porta alla mente l’esplosione garage-rock di metà anni ’60 (che per molti versi era basata tra l’altro sugli stessi modelli): in quel caso a sbrogliare la matassa era arrivata 10 anni dopo la raccolta “Nuggets” mentre per il power pop si rivela fondamentale, con le debite proporzioni e differenze, l’uscita ad inizio anni ’90 della collana “Yellow Pills” a fare luce sull’intricata faccenda.

Negli stessi anni, dopo un timido accenno a fine anni ’80 con gruppi come Material Issue e Let’s Active, si assiste all’ennesima proliferazione di gruppi di scuola power pop destinato ad un piccolo, ma fedele culto a livello indie: questa volta però il modello di riferimento sono divenuti i Big Star, come risulta evidente ascoltando gruppi come Teenage Fanclub, Posies e artisti come Michael Penn e Tommy Keene.

Aldilà della filologia più maniacale e della ricerca di un suono “strettamente” power pop come si diceva prima l’influenza di questi gruppi, specie quelli della prima ondata è difficilmente misurabile, se non altro per aver di fatto costituito un trait d’union fondamentale tra le sonorità pop-rock anni ’60 e quelle del college rock americano (e non solo) che sboccerà sulle ceneri ancora calde del punk.


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