Ryan Adams – Self Portrait (2025)
di Marco Denti
Proprio a metà del guado di Self Portrait, le confessioni autobiografiche di I’m a Rollercoaster e Thunderstorm Years, sembrano delineare un punto di non ritorno. È un’immersione totale nel suo mondo: tra la prolificità e l’incontinenza, ovvero l’autoindulgenza, il limite è sottile e Ryan Adams neanche lo nota. Figurarsi se gliene importa qualcosa: non fa alcun sforzo per assecondare le canzoni o la musica, gli accordi spesso sono accennati e gli arrangiamenti improvvisati, echi e delay sono sparsi a piene mani, ma senza una vaga teoria di come applicarli. La produzione stessa pare considerata irrilevante: il suono è dimesso, i finali troncati, la voce filtrata e doppiata senza particolari attenzioni. La batteria, quando c’è, sembra registrata a un’isolato di distanza, e non che gliene importi a qualcuno, di sicuro non a Ryan Adams. La composizione, volendo, è anche peggio.
Due dozzine di canzoni, che spesso sono bozzetti trascurabili di un paio di minuti o anche meno, con qualche frattaglia già pubblicata qui e là e molto altro pescato dagli archivi senza una particolare logica che colleghi il folk etereo di Blue Monday al falsetto di Lovers Under The Moon o Virginia In The Rain, il country & western di Honky Tonk Girl alle bordate di tastiere di Not Trash Anymore, i quarantacinque secondi scarsi di Try Again Tomorrow e i sette minuti abbondanti di Castles In The Sand, le asperità uscite dal garage e gli archi spruzzati un po’ a caso qui e là. Si salvano soltanto l’intenzione, qualche passaggio delle chitarre acustiche e la voce, quando non è soffocata nel mixer, come nella dylaniana Fools Game che rimanda all’altro, famigerato Self Portrait.
Un titolo che, si è capito, non è particolarmente fortunato, e come il suo illustre omonimo va da tutte le parti senza andare da nessuna in particolare. Detto questo, non c’è il minimo dubbio che l’autoritratto sia proprio il suo: eccessivo, ridondante, romantico all’infinito, abbandonato a se stesso. Per non farsi mancare nulla, Ryan Adams ci aggiunge non una ma ben due versioni di canzoni dei R.E.M., immerse in un effluvio di riverberi. Si tratta di The One I Love e Shiny Happy People, giusto per la cronaca, perché potrebbero essere altre due tracce qualsiasi e sarebbe lo stesso, visto il trattamento riduttivo a cui sono sottoposte. È chiaro che Ryan Adams si sta ritagliando un ruolo da outsider libero di fare ciò che vuole e questo è comprensibile, ma arrivati alla fine, dopo un’ora e dodici minuti di Self Portrait, non si capisce se è più confuso lui o chi ancora è rimasto ad ascoltarlo.

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