Storia della musica #42

 L’hip hop 

Tutti sanno che il primo singolo rap della storia è “Rapper’s Delight” della Sugarhill Gang, del 1979: la base sonora è “Good Times” degli Chic , la voce è di Henry "Big Bank Hank" Jackson, scelto personalmente dopo un audizione fuori dalla pizzeria in cui lavorava da Sylvia Robinson, cantante soul e proprietaria del negozio Sugar Hill Records, nonché deus ex machina del pezzo.
La Robinson non inventa nulla, sia ben chiaro, semplicemente ha la folgorante idea di immortalare su vinile quello che nella seconda metà degli anni ’70 era un fenomeno musicale piuttosto diffuso per le vie di New York, il rap, parte fondante della cultura hip hop assieme alla breakdance e all’arte dei graffiti.
Il suono di “Rapper’s Delight” e dei singoli di Kurtis Blow “Christmas Rapping” e “Breaks” è quello che, col senno di poi, sarà definito old school rap: musica tendenzialmente disimpegnata e destinata al ballo, campioni disco e funky e sopra rapping semplice e sulla battuta. Emergono tendenzialmente due figure fisse con la cultura hip hop: l’Mc e il Dj.
La figura dell’Mc era stata per la prima volta pionierizzata in Giamaica dove, con l’incisione di versioni dub dei pezzi rocksteady che consentivano ai Dj di parlare sopra il pezzo si andò affermando sempre di più la figura del toaster, la cui presenza si fa sempre più invasiva: quando egli comincia a parlare in rima seguendo il tempo dei pezzi il rap può dirsi praticamente nato.
Altre figure cardinali per la nascita del rap sono gli slum poets del Bronx, come Gil Scott Heron e i Last Poets, la cui poesia del ghetto segue movimenti ritmici che anticipano anch’essi il genere: non solo, rappresentano i primi esempi del rap politico e socialmente consapevole che troverà nei Public Enemy i primi esponenti.
Dalla Giamaica arriva anche una figura fondamentale per la storia futura dei giramanopole (i turntablists), quel Kool Herc che, una volta trasferitosi nel Bronx inventa nel 1975 il breakbeat circolare che è fondamento ritmico dell’hip hop; ma è Grandmaster Flash (al secolo Joseph Saddler) che fa emergere il Dj come figura fondamentale e centrale del rap, destinato a condividere le luci della ribalta con l’mc e talvolta ad agire anche in missioni musicali solitarie.
Studente di ingegneria elettronica crea nel 1977 il primo mixer per Dj “truccando” un mixer per microfoni e adotta il Technics Sl-1200 come giradischi d’adozione, e con esso inventa tutte le figure base del turntablist: dal cutting (che consiste nel tagliare la canzone sul beat), al back spinning (la tecnica di far girare il pezzo al contrario), al phasing (l’alterazione della velocità del giradischi) e perfeziona la tecnica di scratching: con Grandmaster Flash il Dj diventa virtuoso e raggiunge una posizione di pari dignità all’mc e viene coniato il suono definitivo dell’hip hop, come dimostrato dall’esordio discografico del 1981, “The Adventures Of Grandmaster Flash On The Wheels Of Steel”.
Non pago Saddler nel 1982, con “The Message”, porta la slum poetry nel rap e per la prima volta l’hip hop si rivela fenomeno non solo destinato ai party ma anche strumento ideale per portare avanti quella funzione di denuncia sociale che erano state del folk e del soul: per quanto riguarda il suono del pezzo, si può già parlare di electro.
Il 1982 è infatti anche l’anno di “Planet Rock” di Afrika Bambataa, leader della Zulu Nation e principale artefice di quello che sarà l’altro suono-tipo del rap old school: l’electro, appunto, combinazione di hip hop, funk e Kraftwerk,  il breakbeat meccanico scandito da una Roland TR-808, mc e voci robotiche che si incrociano, svegliando l’interesse della musica nera per l’algido suono della proto-elettronica tedesca. Nei tardi anni ‘80 l’uso dei sintetizzatori nell’hip hop verrà abbandonato e prevarrà la tecnica di campionare i dischi altrui: non solo questa diventerà la pratica dominante in ambito hip hop, ma verrà ben presto adottata anche da tutti glia altri generi di area più o meno elettronica, dalla house al breakbeat.
Se l’electro verrà abbandonata ed entrerà a far parte, con i primi campionamenti di pezzi disco, della tradizione storica dell’hip hop old school i suoni pionierizzati da Africa Bambataa verranno sviluppati da altri e in altri campi, dai primi passi della techno, col suono techno-electro del progetto Cybotron di Juan Atkins, uno dei primi passi della scena techno di Detroit, agli esperimenti col jazz di Herbie Hancock.
I singoli di Sugarhill Gang e Kurtis Blow si rivelano un successo sotto il profilo commerciale e ben presto l’industria dello spettacolo tenta di appropriarsi del fenomeno hip hop: la breakdance nei primi anni’80 è ovunque, dalla cerimonia di apertura delle olimpiadi di Los Angeles al campione d’incassi cinematografico Flashdance e i Wham! vanno in testa alle classifiche con il non esaltante “Wham! Rap”.
L’arrivo dei Run Dmc si rivela salvifico: fin dall’esordio omonimo del 1984 c’è nei tre membri della crew, che saranno definiti “Beatles neri” dai Public Enemy per l’importanza rivestita bella storia dell’hip hop, un invito al mondo dell’hip hop a non svendere e una ridicolizzazione dei tanti mc-fantoccio che calcano la scene a quel tempo, in un pezzo storico come “Sucker Mcs”.
La vera scossa arriva però con “Walk This Way”, primo esempio storico di crossover tra (hard) rock e rap: l’importanza della fusione non è meramente musicale visto che la presenza degli Aerosmith nel pezzo (e nel video) sdogana la crew su MTV che aveva colpevolmente ostracizzato la presenza dei rapper neri nei suoi palinsesti; è l’inizio dell’ascesa commerciale del rap non come fenomeno macchiettistico ripulito dal senso di minaccia dall’industria dello spettacolo bianca quale minacciava di configurarsi, ma come primo caso di esposizione mediatica di massa di una musica fatta e suonata (quasi) esclusivamente da neri.
La musica però attecchisce anche tra il pubblico bianco, anche se deve ancora conquistare il pubblico, cosiddetto, alternativo: a facilitare l’avvicinamento tra i due mondi ci pensa la crew delle Native Tongues che scocca in rapida sequenza quelli che sono i capolavori del primo alternative rap: nel 1988 “Straight Out the Jungle” dei Jungle Brothers, nel 1989 “3 Feet High and Rising” dei De La Soul e nel 1990 gli A Tribe Called Quest di “People's Instinctive Travels and the Paths of Rhythm”, dischi di hip hop festoso ed ultra-contaminato, a partire dall’incredibile varietà nei campioni .
Due anni più tardi è la volta di “Check Your Head”, terzo disco dei Beastie Boys: il gruppo, partito nel 1987 col crossover hardcore-rap di “Licensed To Ill” e passato nel 1989 attraverso “Paul’s Boutique”, disco eclettico e spiazzante che avvia il culto alternativo del gruppo, arriva con “Check Your Head” ad una folle (e perfetta) miscela di pop, rap, hardcore, metal, bossa e funk, collage sonoro che già fa presagire quella propensione all’eclettismo sconsiderato che animerà alcuni dei migliori dischi degli anni ‘90.
Dello stesso anno di “Licensed to Ill” è l’esordio dei Public Enemy “Yo Bum Rush The Show”: se il suono del gruppo è quasi avveniristico (suoni deep funk, sirene e frammenti sonori spesso irriconoscibili) per quello che era il rap dell’epoca, la prosa è militante e politicizzata, spesso estremistica, elemento centrale anche nel successivo “It Takes a Nation of Millions to Hold Us Back” (1988), con cui il gruppo conquista definitivamente la notorietà: dischi che segnano la nascita dell’hardcore rap, incarnazione del genere aggressiva e priva di compromessi, destinata a trionfare con il gangsta rap dei N.w.a. (Niggers With Attitudine), crew che nel 1988 con “Straight Outta Compton” scrivono il primo atto dell’ascesa della west coast: fino ad allora la cultura hip hop è fenomeno prettamente newyorchese o, comunque, anche quando il fenomeno comincia ad allargarsi, circoscritto all’east coast. La supremazia della costa ovest e del gangsta rap, una volta conquistata, si rivela pressoché irreversibile, almeno per gran parte degli anni’90.
Non solo, presto con gli Arrested Development anche il sud si appresta ad entrare nella mappa: ma si tornerà sull’argomento più tardi…

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