Half Waif – Lavender (2018)

di Michele Corrado

È difficile sentirsi a casa, se ti chiami Nandi Rose Plunkett. La raffinata chanteuse, autrice dei testi e delle eleganti tessiture di synth di questo trio di Brooklyn, ha trascorso la sua gioventù in quel di Williamstown, Massachussets. Una cittadina relativamente tranquilla: ottomila anime, un abbondante novanta per cento delle quali bianche. Non proprio il migliore dei posti per la figlia di una rifugiata indiana e un irlandese. E così ecco le discografie delle varie Bjork, Kate Bush e, perché no, Imogen Heap diventare l’accogliente riparo da un ambiente circostante magari non proprio ostile, ma certamente scomodo. Un rifugio destinato a influenzare con potenza una produzione incentrata, chiaramente, sul tema della ricerca di un posto dove sentirsi davvero a casa.

“Lavender” è il terzo disco degli Half Waif e, oltre a lavorare su una maggiore ricercatezza delle trame sonore, aggiunge al tema della ricerca di una dimora una commossa palette di ricordi della Plunkett, riguardanti soprattutto le figure femminili della sua famiglia. La prima ad apparire, tra i sintetizzatori tremolanti di “Lavender Burning”, è la nonna: ha appena perso gli orecchini e li ricerca tra i fili d’erba del prato. Candidi ricordi come questo intervallano continuamente le narrazioni di Nandi e hanno l’effetto di veri e propri flashback, incorniciati da battiti evanescenti che destano nostalgia ad ogni rintocco.

Ma dicevamo di una grandissima crescita anche dal punto di vista sonoro. Per confermarla basterebbe osservare come “In The Evening” viene fatta levitare mediante il canto etereo di un soprano, o provare a scomporre i difficili incastri che complicano le varie “Parts” e “Salt Candy”. Un ruolo principale in questo gioco lo svolgono senz’altro i battiti pilotati da Zack Levine, mai costanti nel corso di un brano, ma in perenne evoluzione. Spesso partono vellutati, quando non inconsistenti, per poi acquistare forza man mano, assecondando attenti le variazioni dell’umore di Nandi.
C’è anche un brano quasi interamente acustico: la piano ballad “Back In Brooklyn”, sentito omaggio all’unico posto dove la Plunkett si sia mai sentita, anche solo momentaneamente, a suo agio: “Back in Brooklyn, for the night/ It's easy and it's right/ It's freezing and it's bright/ It's everything I like”. “Lilac House”, sospinta da un giro di sintetizzatore pimpante e da beat ottusi, ricorda vagamente gli Knife ed è il brano più vivace del mucchio.

Come anticipa la cover – che immortala Nandi Rose Plunkett varcare un immaginario portale color viola disegnato nel buio - c’è pochissima luce in “Lavender”. E quella poca che scorgiamo viene da una luna pallida e lontana, spiata seduti sul davanzale di una finestra, l’ennesima notte, ricordando con nostalgia i dolci momenti vissuti in una casa mai considerata tale.

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