Ryan Adams - Omonimo (2014)

di Fausto Gori

E` da quello che in definitiva è il suo miglior album solista, Cold Roses (2005), che Ryan Adams perde l`occasione di consacrare definitivamente la figura di un musicista che, fin dai tempi dorati dei Whiskeytown, non ha mai smesso di far parlare di sè, nel bene e nel male. Tre anni dopo il discreto Ashes and Fire (2011), l`impressione è sempre la stessa, cioè che nella personalità bizzarra e indecifrabile di Ryan ci possa essere un potenziale artistico non ancora del tutto espresso, ma anche una incapacità palese nell`essere qualitativamente coerente, e in questo, l`abbastanza inutile sfogo metal di Orion (2010) ha sicuramente rappresentato un vertice negativo. Naturalmente non si può non riconoscergli i meriti di una identità comunque consolidata che, nonostante tutto, rimane ancora credibile agli occhi esigenti dei tanti appassionati rock.

Arrivato alla soglia dei quarant`anni, l`ex ragazzo della North Carolina è ancora irrequieto, nel suo nuovo disco omonimo si ripetono in modo ossessivo le immagini di fuoco, oscurità e spazi senza via d`uscita, espressioni di un disagio, di un angoscia generalizzata che si riversa su ogni aspetto valutabile. Non è un caso che in Kim faccia sentire ancora echi di Replacements o del miglior Westerberg solista, ma non è detto che sia poi un merito quando oltre le similitudini non c`è molto altro da offrire. Il ritmo sostenuto della trascinante Trouble, con sapienti incroci di chitarre tra spesse pareti che crollano e dove tutto sta bruciando, sfuma nel miraggio illusorio della suadente Am I Safe, tra angelici cori femminili, incantatori arpeggi acustici e poi elettrici, dove la voce di Ryan, impeccabile ed espressiva come sempre, rilascia ancora parole senza scampo: ”Sulla via del ritorno vedo una casa in fiamme. Chiudo gli occhi , come se quella fosse la mia. Sono al sicuro se non voglio più stare con te? Non ti amo più, voglio solo stare qui e guardarla bruciare, sedermi e guardarla bruciare”.

Se Wrecking Ball sembra uscita dalla penna più autoindulgente di Springsteen, Stay With Me taglia il disco con roventi sferragliate stonesiane per poi involvere in modo abbastanza sterile. La pulsante I Just Might riporta intensità mentre il lavoro elettroacustico alle chitarre, in uno dei pezzi migliori, Tired of Giving Up, crea suggestivi ricami sonori, forse l`aspetto davvero significativo dell`album in generale, con chiari rimandi stilistici a Tom Petty e i suoi Heartbreakers.

Del pezzo di apertura, scelto anche come singolo guida, se ne può parlare alla fine come esempio riassuntivo di un disco che evidenzia luci ed ombre, in una costante assoluta che può esser vista, paradossalmente, anche come aspetto di stramba coerenza. Può entusiasmare il riff iniziale e marziale di Gimme Something Good ma allo stesso tempo il banale ritornello radiofonico che ne segue è come un macigno che cade sul pezzo, lo distrugge, senza speranza. Alla fine, tra compromesso, eccellenza e mediocrità, il calderone fumante a nome Ryan Adams è fatto e pronto. Sta a noi assaggiare senza fermarsi alla prima scottante cucchiaiata, la seconda può già essere ben altra cosa. (3,5/5)

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