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Robbie Robertson – Omonimo (1987)

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di Silvano Bottaro Sangue indiano nelle vene, il Canada come paese natale e una credibilità conquistata tra le fila della “Band”. Quando decide di entrare in studio per registrare il “suo” disco, Robbie Robertson aveva masticato rock per quasi tre decenni. Nel 1965 aveva accompagnato Dylan in uno dei tour più discusso della storia. Da allora, la sua vicenda era rimasta strettamente legata a quella dell’uomo di Duluth: insieme alla Band aveva registrato album di capitale importanza come “Music from Big Pink” e preso parte alle memorabili session di “The Basement Tapes”. Nella Band era punto di riferimento, ma la presenza di vocalist d’eccezione come Levon Helm, Richard Manuel e Rick Danko gli aveva spesso impedito di interpretrare lui stesso le canzoni che scriveva. Dal giorno dell’addio della Band, documentato da un capolavoro musical-cinematografico intitolato “The Last Waltz” (1976), Robertson ha atteso undici anni prima di pubblicare il suo primo, vero lavoro solista. “Non av

Yann Tiersen - ∞ (Infinity) (2014)

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By Achab Il polistrumentista bretone Yann Tiersen, uno dei più importanti compositori in attività, è sempre stato un instancabile sperimentatore di soluzioni musicali e di linguaggi sonori: nel corso della sua carriera è infatti passato dal minimalismo alle colonne sonore (celeberrima è quella de Il favoloso mondo di Amélie), dalla classica contemporanea a forme più vicine alla canzone, da suggestioni folk al post-rock venato di elettronica degli album Dust Lane e Skyline. (Per un più ampio discorso sull’itinerario artistico di Tiersen, e sul suo affrancamento dall’essere solo “quello di Amélie”, si rimanda a questo live report, pubblicato su queste pagine poco meno di due anni fa.) Con la sua ultima fatica in studio, ∞ (Infinity), il Nostro prosegue il suo percorso di ricerca, con un lavoro che – pur recuperando e rielaborando alcuni elementi della sua precedente produzione – si rivela un nuovo, originalissimo tassello della sua inesauribile creatività. Per inquadrar

The Smile - Cutouts (2024)

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 di Giovanni Davoli Possiamo anche smettere d’invocare il ritorno dei Radiohead. Che poi torneranno pure, almeno finché Yorke e Greenwood stanno così a palla e ispirati. E sarò curioso di vedere cosa un loro nuovo disco ci porterà che non ci abbiano già portato tre dischi dei The Smile negli ultimi 29 mesi. Recensendo il precedente “Wall of Eyes” mi spingevo a dire che la band è la “più importante di questi anni ’20”. Quel che non ha mancato di suscitare l’ironia di qualche “collega” che li ritiene sopravvalutati. Mentre sono felice di essere letto da chi ha la mia stessa ossessione per le parole applicate alla musica, non starò certo a replicare. Alla fine, queste parole che verghiamo per descrivere ciò che amiamo sono soggettive, come ogni parola d’amore.  E io non riesco a non amare anche The Smile oltre a, ovviamente, i Radiohead. E’ un piacere sentire i nostri due geniacci così a loro agio in questo nuovo outfit. Accompagnati soltanto (si fa per dire) da Tom Skinner, uno dei migli

Alberto Fortis

Alberto Fortis nasce a Domodossola nel 1955, e si avvicina alla musica da adolescente suonando la batteria in un complessino, i Paip's, che si esibisce nei locali del Sestriere. Passato allo studio del pianoforte, si trasferisce a Roma a metà degli anni '70 con l'intenzione di diventare un cantautore rock, sulle orme di Lucio Battisti ma anche di Bob Dylan e dei Beatles. Discografia e Wikipedia

Yellow Submarine - The Beatles (1966)

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Niente a che vedere con l'Lsd, come molti ipotizzarono. Una semplice (ma bellissima) canzone per bambini, una filastrocca che Paul McCartney scrisse a letto, una sera, dopo essere stato influenzato dalla dylaniana Rainy Day Woman #12 & 35 , che due settimane prima era entrata in classifica. Dylan aveva utilizzato una band di ottoni per ottenere un suono stile Esercito della salvezza a lasciato spazio al divertimento. McCartney pensò a un procedimento simile, che prevedesse molti effetti sonori. Con gli altri Beatles entrò nei magazzini degli studi di Abbey Road e fece razzia di trombette, fischietti, tubi di gomma, catene, campanelli. Si divertirono molto. (M. Cotto - da Rock Therapy)

Gillian Welch and David Rawling - Woodland (2024)

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 di Fabio Cerbone  Il tempo dell’attesa è ormai una rarità nel mondo contemporaneo, a maggior ragione nella musica, schiacciata dal qui e subito dell’era dello streaming. Nel caso di Gillian Welch e David Rawlings, coppia delle meraviglie del folk americano, è invece un prezioso alleato per aumentare l’aura di sacralità intorno alle loro uscite discografiche, uno dei pochissimi esempi di forza artistica che corre di pari passo con il gesto della stessa composizione musicale, centellinata con la pazienza di un artigiano che scolpisce e incava il legno, materiale del cui profumo terrigno e antico sembrano fatte le ballate del duo. A tredici anni da The Harrow and The Harvest, l’ultimo album di materiale originale della coppia, e accreditandosi per la prima volta in carriera con entrambi i nomi (era avvenuto soltanto con l’album di cover e tradizionali del 2020, All the Good Times Are Past & Gone) Welch e Rawlings condividono più che mai in profondità gli alti e bassi vissuti in tempi

The Antlers - Familiars (2014)

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Quarto album per i The Antlers. “Familiars” dimostra quanto la formazione newyorkese sia cresciuta nel corso degli anni. Un percorso artistico che li ha visti plasmare un sound elegante, al limite tra dream pop e folk, e dare alle stampe album come “Hospice” e “Burst Apart”, che si collocano di diritto tra i dischi più interessanti degli ultimi anni. Oggi il progetto di Peter Silberman pubblica il suo disco più bello, in cui le ambizioni pop presenti nei due lavori precedenti, vengono filtrate da un suono ancor più sofisticato e godibile. È un barlume malinconico di note al velluto capaci di colpirti nel profondo; canzoni incantevoli che sembrano immerse nell’azzurro del cielo. Tutto fragile come il cristallo. Tutto pronto a sgretolarsi da un momento all’altro. Le composizioni di Familiars sono dipinti sonori di nostalgia sognante: Palace, Director, Revisited, Refuge, sprofondano in abissi di malinconia. Doppelganger, Hotel, Parade, restano sospese come nuvole. Una lentezza solenne

Nick Cave & The Bad Seeds - Dig, Lazarus, Dig! (2008)

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di Silvano Bottaro Non vive certamente sugli allori il nostro Nick Cave se nel giro di dodici mesi riesce a pubblicare tre album. Dopo il progetto “Grinderman”, la colonna sonora di “The Assassination Of Jesse James”, è uscito poche settimane fa “Dig, Lazarus, Dig!” assieme ai suoi fedeli "Semi Cattivi". Tre dischi diversi uno dall’altro. Se l’estemporaneo “Grinderman” sembrava uscito dall’atmosfera che si crea in una serata tra amici in cui l’alcol fa da padrone, nella colonna sonora di “The assassination…”, Cave sembra smaltire i postumi della sbornia riposandosi e rinunciando alle parole, ai suoi testi che invece in questo “Dig, Lazarus, Dig!” sono molto presenti, forse troppo. “Volevo fare un disco acustico però grezzo, dove tutti picchiassero sui loro strumenti anziché suonarli semplicemente. Tanti anni fa avevo già cercato una via del genere, ai tempi di Henry's Dream; ma il progetto mi era scappato di mano, era venuto un album troppo elettrico, troppo ro

Swans - To Be Kind (2014)

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di Michele Saran Altro doppio disco altra corsa. A Michael Gira, patron assoluto e onorario degli Swans, non bastava “The Seer”, il colosso fatto di colossi che tanto fece parlare di sé due anni or sono. E’ ora la volta di “To Be Kind”, nuovo disco-mostro che prosegue la saga del progetto con i medesimi ingredienti del predecessore. Stavolta la voglia di stupire il ritrovato pubblico di vecchi e nuovi fan sembra però prevalere sull’ispirazione. L’iniziale “Screen Shot” è anche il brano programmatico: andatura boogie-blues, litania scandita, fiacco saltarello gotico, crescendo verso un “tutti” chitarristico. Queste caratteristiche si ritrovano più o meno modulate nelle restanti parti. Il talking-blues sonnolento e letargico di “Just A Little Boy”, con tanto di voce invecchiata ad arte, di quando in quando prende slancio e forza, ma anche in questi brevi momenti è una pallida copia delle sfuriate di trent’anni fa. “A Little God In My Hands”, funk surreale Nick Cave-iano, di nuovo

Snow Patrol - The Forest Is the Path (2024)

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 di  Angela Denise Laudato Avevamo lasciato gli Snow Patrol sei anni fa, con l’album “Wildness” per ritrovarli oggi con un ottavo lavoro, “The Forest is the Path”, prodotto da Fraser T Smith (Adele/Dave/Stormzy): “Un album che affonda le sue radici nella riflessione, nell’introspezione e nell’interrogazione” – dichiara Gary Lightbody, frontman della band – e che sviscera “l’idea dell’amore a distanza di tempo”. In tutta la loro carriera gli Snow Patrol (oggi il trio è composto da Gary Lightbody, Johnny McDaid e Nathan Connolly) hanno intrecciato in musica canzoni d’amore e perdita. Ma il nuovo album “The Forest is the Path” passerà sicuramente alla storia come il più onestamente vulnerabile e il più infelice. Difficile scrivere di una band che ritrova da circa trent’anni il favore del pubblico. Anche in questo nuovo lavoro risultano prosaici, seguono le stesse progressioni di accordi lenti e mutevoli, creando quella maestosa andatura da stadio arricchita da chitarre sbuffanti, tastiere

E T I C H E T T E

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