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John Coltrane - A Love Supreme (1966)

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di Silvano Bottaro La delirante, commovente visione di profonda religiosità che supera e confonde i limiti dell'uomo. Dagli ampi spazi del jazz, Coltrane sconvolge passioni e gusti radicati, avventurandosi in uno sperimentalismo lucido ed esaltante. Se prima coltivava passivamente la sua condizione di maledetto compiacendosi di questa immagine negativa ma affascinante, ora egli sente che il suo straordinario talento sta sprofondando negli abissi della sua sregolatezza. Così A Love Supreme diventa il tentativo estremo di esorcizzare la sua esistenza alla ricerca dell'Amore come motore del mondo individuando nell'uomo il soggetto-agente di questo sentimento a cui spetta il compito della salvezza. L'Africa ed il misticismo indiano sono le componenti di questa illuminazione e il suo sax percorre sentieri intrecciati da visioni cosmiche, da forme free mai raggiunte prima diventando la comunicazione della coscienza svincolata finalmente dal materialismo.

Anders Osborne - Picasso's Villa (2024)

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 di Fabio Cerbone  Tesoro musicale della scena di New Orleans, autore che ha saputo tenere insieme la multiforme tradizione cittadina con le nuove pulsioni del rock, del blues elettrico e dell’Americana (quando ancora la definzione del genere non era all’orizzonte), il “ragazzo svedese” di Uddevalla, catapultato nella Big Easy a metà degli anni Ottanta e lì definitivamente accolto dalla comunità artistica cittadina, festeggia quasi quattro decenni di attività discografica e alla soglia dei sessant’anni estrae dal cilindro uno dei suoi album più spiritati. Forse in consapevole constrato con l’intimità acustica e le confessioni folk dell’altrettanto ammirevole Orpheus and the Mermaids, Picasso's Villa è un condensato (“soltanto” otto brani, quattro per facciata nell’edizione in vinile che affianca l’uscita digitale) di ricordi, sensazioni, omaggi che attraversano la sua storia personale di musicista e di uomo, e allo stesso tempo commentano lo stato della nazione, un’America sballott

John Hiatt - Terms of my Surrender (2014)

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di Massimo Orsi Hiatt è ormai considerato da anni un autentico maestro nello scrivere canzoni ed uno story-teller pieno di satira e humor; con questo nuovo lavoro ci fa ascoltare racconti che passano da argomenti quali la redenzione e le relazioni, sempre più legati a protagonisti suoi coetanei, quindi più anziani ed arrendevoli. Il nuovo disco è musicalmente ancorato al blues acustico, accentuato dalla voce soul e grintosa di Hiatt, che rispecchia la gravità delle liriche riflessive. Per la produzione di questo disco, Hiatt si è rivolto al suo chitarrista storico Doug Lancio (in passato con Patty Griffin, Jack Ingram). Anche se inizialmente le registrazioni erano composte da un set elettrico, Lancio sfidò quasi subito Hiatt a suonare in acustico, cosa che sembra essere stata ben gradita, in quanto gran parte del disco è inciso in questa maniera; inoltre Hiatt dopo diverso tempo si cimenta a suonare anche l’ armonica. L’ album è stato inciso dal vivo in studio, fatto del tutto n

Gang

Accompagnati spesso - in particolare agli esordi - dalla definizione di "Clash italiani", i Gang hanno abbracciato, nel corso di una avventura musicale lunga ormai venticinque anni, un percorso personale e rigoroso, nel quale il rock si è man mano mescolato a un appassionato recupero delle radici politiche, culturali e musicali e che li ha portati ad essere non solo i capiscuola del cosiddetto combat-folk. Discografia e Wikipedia

On Every Street - Dire Straits (1991)

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Metti un chitarrista geniale che trasforma lo stile di J.J. Cale in qualcosa di così superbamente evocativo da diventare epico; metti che questo signore aggiunga un tocco deliziosamente country e un tempo sospeso che diventa cristallo; metti che a volte sembra quasi che si muova al rallentatore e altre volte acceleri con gioia fino a far combaciare il twang di Duan Eddy con i lick più aspri di Jimi Hendrix. Ci sono molti modi per definire il lavoro di Mark Knopfler, ma questo mi sembra il più semplice e, forse, il più efficace: non esiste un solo Mark Knopfler, ma puoi stare certo che ovunque accenda la sua chitarra, quello che senti lo riconosci immediatamente come un suono solo ed esclusivamente suo. Si chiamano Dire Straits, ma a tutti gli effetti sono il prolungamento e l'estensione di Mark Knopfler, che in questa lunga ballata dai toni ipnotici e dilatati prende per mano l'ascoltatore e lo conduce nella stanza dei sogni, dove ogni respiro ha la forma di una chitarra e dove

The Hard Quartet - The Hard Quartet (2024)

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 di Antonio Pancamo Puglia Con i Jicks ormai archiviati e i Pavement resuscitati a tempo indeterminato – ? – come il più glorioso dei legacy act in circolazione (com’era giusto che fosse), il caro vecchio Stephen Malkmus trova oggi un nuovo veicolo per la sua creatività, rimettendosi in gioco con un nuovo set di musicisti. E che musicisti: The Hard Quartet – la consueta ironia è evidente sin dal nome – lo vede accompagnato dai veterani Matt Sweeney (affermato chitarrista e sideman, attivo nei Chavez, nel progetto Superwolf e in una miriade di collaborazioni eccellenti), Emmett Kelly (forza primaria dietro il power pop d’autore dei Cairo Gang e sodale di Bonnie “Prince” Billy e Ty Segall) e il superbatterista Jim White (reduce dall’eccellente progetto avant-jazz Beings nonché dalla rimpatriata su disco dei suoi Dirty Three). Per quanto la star del lotto sia indubbiamente lui, l’immarcescibile silent kid, il quartetto conta su ben tre songwriter e cantanti: in fase promozionale, si è dun

Son of The Velvet Rat - Ghost Ranch (2024)

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 di Fabio Cerbone Che una delle musiche americane dai tratti più sfuggenti e desertici che si possano ascoltare di recente provenga da un duo di origini austriache è già motivo di attrazione e curiosità, che i Son of the Velvet Rat lo stiano facendo da diverso tempo e meritino finalmente qualche attenzione maggiore rispetto alle “buone maniere” di molti colleghi, anche e soprattutto da parte di quel pubblico che segue certa roots music ammantata di sensibilità d’autore, sarebbe altrettanto legittimo. Ghost Ranch, a completare idealmente una sorta di trilogia nata ai confini del deserto californiano del Mojave, presso gli studi Red Barn del produttore Gar Robertson (già al lavoro sul precedente Solitary Company) situati nella Morongo Valley, è un’ulteriore prova di come Georg Altziebler e Heike Binder, coppia artistica e nella vita, abbiano assimilato fin nelle ossa linguaggio, strutture e fascino di certo folk rock dai tratti sabbiosi e dark, come annuncia l’armonica e l’incedere lunar

Robert Wyatt - Rock Bottom (1974)

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di Silvano Bottaro Non è facile descrivere questo album, la sua bellezza è direttamente proporzionale alla sua complessità. Sono i Suoni e i sospiri di un uomo distrutto nel fisico, ma spiritualmente integro come pochi. Wyatt ritrova se stesso e l'inizio di una nuova vita proprio quando stava per perderla. Costretto su una sedia a rotelle, Wyatt realizza insieme ad amici canterburiani di vecchia data come Richard Sinclair, Hugh Hopper e uno straordinario Mike Oldfield, uno dei pochi toccanti inni di pace e d'amore mai ascoltati . Non c'è più la lucida follia dei Soft Machine , ne la psicotica anarchia dei Matching Mole , ma una musicalità dolce pervasa da un senso di commovente tranquillità e una voce roca che sembra quasi sottolineare i passaggi di questa eterea e sognante dimensione. Rock Bottom è un fascio di luce radioso che entra dalle finestre dell'anima per esaltare l'imperscrutabile grandiosità della vita. Un destino oltraggioso a causa dell'autoles

JJ Grey & Mofro - Olustee (2024)

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di Nicola Gervasini  Non sarebbe facile spiegare al pubblico italiano, anche quello più musicofilo, perché noi di Rootshighway abbiamo patito non poco per la lunga assenza discografica di JJ Grey & Mofro. Innanzitutto perché probabilmente dovremmo anche prima spiegare di chi diavolo stiamo parlando, visto che, sebbene il combo di Jacksonville, Florida sia nato prima del 2000, ad oggi la sua popolarità è parecchio limitata agli ambiti della scena post-Jam-bands, categoria a cui subito furono associati fin dal primo album Blackwater (che ancora usciva con la semplice sigla Mofro). E dovremmo spiegare come mai se su quella scena abbiamo un po’ mollato il colpo anche noi in quanto ad attenzione mediatica, perché riteniamo abbia generalmente esaurito la propria carica creativa (sebbene in USA resti un fenomeno ancora più che vivo dal punto di vista dei riscontri di pubblico presente ai concerti), loro invece non hanno mai smesso di suscitare la nostra più piena ammirazione, se non propr

The Cure – Songs of a Lost World (2024)

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di Maurizio Ermisino   “This is the end of every song that we sing” “Questa è la fine di ogni canzone che cantiamo”. Inizia così Alone, e inizia così Songs Of A Lost World, il nuovo, attesissimo album dei Cure, il primo dopo un silenzio (discografico) di 16 anni. Sembrano parole di commiato, quelle di un possibile addio, quelle di un ultimo disco. Ma non crediamo sia così. I Cure di Robert Smith sono vivi e vegeti, sono una band che ha fatto la storia del rock, ma che oggi non profuma solo di passato e di ricordi, ma dimostra di saper stare alla grande nel mondo musicale contemporaneo. Certo, alla maniera loro. I Cure tornano con un album di otto canzoni, alcune di sette minuti, e con un pezzo finale da 10 minuti, in un’era in cui Tik Tok e Spotify chiedono canzoni da 3. Mentre oggi in ogni brano il ritornello deve arrivare entro 30 secondi, la voce di Robert Smith entra dopo 3 minuti, nel pezzo finale addirittura dopo 6. Le nuove canzoni dei Cure non hanno fretta di essere ascoltate,

E T I C H E T T E

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