Storia della musica #57

Dalla deep alla microhouse

Se per molti versi, trovandosi alle prese con l’evoluzione subita dalla house dai primi ’90 in poi ci si trova alle prese con dinamiche e problemi simili a quelli incontrati con la techno (una miriade di stili e sottostili, città ed etichette chiave) è anche vero che, se possibile, in questo caso la soluzione del puzzle si rivela ancora più problematica: un gioco di sponde e di reciproche influenze fittissimo tra i due lati dell’Atlantico (complicato dal subentrare sulla scena di nuovi poli musicali come Germania, Italia e Francia), controversie e confusioni sulle definizioni dei vari generi, contaminazioni infinite e continue, complicano la faccenda.

Per un trovare un primo bandolo nell’intricata matassa bisogna tornare agli ultimi anni ‘80: la deep house, suono definito fin dal 1987 da seminali pezzi come “Let The Music (Use You)” dei Nightwriters e “You Used To Hold Me” di Ralphie Rosario, caratterizzato da lussuriosi layer di archi sintetici e da un bpm relativamente rilassato, diventa uno dei suoni caratteristici di Chicago, fruttando allo stesso tempo al genere i suoi primi due LP, “Another Side” di Fingers Inc. e “Can’t Get Enough” di Liz Torres e divenendo poi nei ’90 un sinonimo per la house più raffinata e meno “pompata”, con produttori chiave come Deep Dish, Kevin Yost e Faze Action ed etichette come Nuphonic e Classic a portare avanti quei suoni e rivelarne allo stesso tempo anche il lato più sperimentale e meticcio.

Gli ultimi anni ’80 vedono anche l’ascesa di New York, e in particolare del New Jersey, come polo fondamentale di crescita della house: è qui che si sviluppa il cosiddetto New Jersey Sound, appunto, stile definito, in contrapposizione con quello di Chicago, da un suono che eredita le raffinatezze vocali e strumentali del philly soul passando ovviamente attraverso la lezione della disco di cui è il più diretto discendente: un suono che si sviluppa grazie al talento di produttori come Todd  Terry,  Blaze e Little Louie Vega che di lì a poco farà società con Kenny Dope  Gonzales fondando i Masters At Work vocalist come Jocelyn  Brown, Barbara Tucker e una veterana della disco come Loleatta Holloway. Fondamentale si rivela anche Tony Humpries, resident allo Zanzibar (locale situato, appunto, in New Jersey), che più di ogni altro si rivela centrale per la nascita di quel suono, definito da singoli come “Take Some Time” di Arnold Jarvis e “If I should Need a Friend” di Blaze e che, una volta arrivato alle avide orecchie del pubblico inglese, comincia ad essere definito garage (cosa che creerà l’equivoco secondo cui l’origine di quel suono risalirebbe allo storico Paradise Garage di Larry Levan).

Un suono che fin da subito nel Regno Unito è fatto oggetto di un culto smodato: emblematica è la nascita, nel 1988,  della  Republic di Joey Negro, importante etichetta inglese che pubblica una compilation seminale come “The Garage Sound Of Deepest New York” oltre a svariati dischi di Blaze e del suo discepolo Phase II; non solo, la label inglese e le prime produzioni di Negro divengono anche il centro gravitazionale del fenomeno underground inglese definito neodisco che, come suggerisce il nome, ricongiunge definitivamente i suoni della house con quelli originari della disco anni ’70, specie quello della fase iniziale più underground, legato a etichette come la Salsoul Records e a figure seminali come Francois Kevornian e Walter Gibbons. Nella neodisco troviamo un primo esempio di quella disco house che si affermerà definitivamente nella seconda metà degli anni ’90 col boom della house  francese di Daft Punk e Dimitri From Paris.

Sempre nel 1988, dall’altra parte dell’oceano, Todd Terry, uno dei pionieri del suono garage, oltre che delle tecniche di  sampling applicate alla house, collabora con i Jungle Brothers del collettivo Native Tongues nel pezzo “I’ll House You”, prima fusione tra house e hip hop, che segna la nascita di un genere minore come la hip-house, suono ripreso da produttori come Tony Scott e Two In A Room e portato al successo dai Technotronics. Ancora  nel 1988 viene fondata a Bologna la Irma Records, etichetta italiana che si rivela centrale per la diffusione della house italiana, fenomeno musicale di rilievo internazionale, che porta un generale ammorbidimento nelle sonorità e comincia ad inserire raffinati campioni di piano, inaugurando una tradizione che proseguirà negli anni con produttori come Jestofunk e LTJ X-perience.

Gli anni che seguono, a cavallo tra ’80 e ’90, sono fondamentali per lo sviluppo e il consolidarsi dei diversi stili, con il suono che tende generalmente ad evolversi anche in relazione al progresso tecnologico (in particolare l’introduzione massiccia del sampling e del midi per la produzione dei pezzi si rivelano decisive) ed il crearsi di una dicotomia per cui, a fronte di uno sviluppo underground e a livello di club di quei suoni, a rappresentarne il versante più stimolante, la house da molti comincia ad essere associata ai fenomeni più commerciali: da gruppi euro pop come Ace Of Base, Cappella, Datura (gli ultimi due prodotti in Italia) ai remix house ad opera di produttori come Junior Vasquez, Masters At Work ed Armand Van Helden di artisti pop che cominciano a circolare massicciamente.

In tal senso si rivela fondamentale l’emergere nel 1993 della house progressiva, genere in cui si vanno fondere i suoni della house e quelli della trance: se la struttura ritmica è tendenzialmente house, tipici della trance sono il bpm accelerato, il susseguirsi di crescendo e crolli (i breakdown) ritmici ed i layer di synth che occupano il centro della scena e tracciano linee melodiche epiche e molto spesso vicine alla musica classica. Anche l’hard house, genere “inventato” da Bad Boy Bill e Tony De Vit a metà anni ’90, nasce da questa fusione, ottenendo però un suono radicalmente diverso, martellante ed aggressivo. Tornando al progressive, esso diviene ben presto uno dei suoni più popolari della house inglese, portato avanti negli anni da produttori come Spooky, Robert Miles, Bt, ATB, Way Out West, Sasha, Bedrock (alias John Degweed) e Paul Van Dyk.

A quel suono è associata inoltre tutta una serie di artisti come Leftfield, Faithless ed Underworld che si differenziano dai Dj di cui sopra per uno spirito di fusione più spiccato che li porta a muoversi incessantemente sul confine  tra techno, house e trance, sperimentando contemporaneamente con il dub e la world music: i Leftfield di “Leftism” (raccolta di singoli del gruppo datata 1995) sono tra i primi ad incrociare house e reggae con il singolo “Earl Sixteen”, prima traccia di un disco che si contamina spesso e volentieri con la techno ed il rock. Un percorso quasi inverso a quello compiuto dagli Underworld, partiti da un suono techno che contaminano con dub, house e rock, arrivando al capolavoro nel 1993 con “Beaucoup Fish”. Si tratta, in generale, di artisti dal suono mutante e meticcio che pongono le basi per il cosiddetto suono della cosiddetta leftfield house (house alternativa), terra di mezzo dove verranno collocati tutti quegli artisti, inclassificabili, che partono dai suoni tradizionali della house e della techno per creare un melting pot sonoro che si rivelerà fondamentale punto d’incontro tra pubblico rock e pubblico dance dopo la sbornia del big beat: se ne parlerà tra poco.

Tra i primi esperimenti di Spooky e l’esplosione della house alternativa di fine anni ’90 avvengono alcuni fenomeni degni di nota: prima di tutto la comparsa di un suono nuovo, fusione inedita di house e techno che comincia a comparire sul finire degli anni ’90 e prende il nome di tech house: un ibrido che comincia a prendere vita dal 1996 nei 12” di Killer Loop e Layo&Bushwacka griffati dalla londinese End Recordings, etichetta (semi) personale di Layo Paskin, metà degli L&B di cui sopra; altrettanto seminali si rivelano la Plastic City, che nel 1997 da alle stampe “Chocolate Chords” di Terry Lee Brown Jr e la scozzese Soma per cui escono Funk D’void e Slam: artisti che declinano in modo diverso un suono ancora in formazione, che va dalle tentazioni breakbeat  di Layo&Bushwacka alle strizzate d’occhio al suono di Detroit di Terry Lee Brown Jr.

Il 1996 è anche l’anno di nascita dello speed garage: un’invenzione attribuita in ugual misura al remix di Armand Van Helden di “Sugar is Sweeter” di CJ Bolland che innesta su una ritmica house in 4/4 elementi sonori provenienti dalla drum’n’bass (linee di basso cavernose, effetti dub e ritmi sincopati) e alle produzioni di Todd Edwards, che introduce un importante elemento distintivo del genere: l’utilizzo delle voci, campionate e sminuzzate attraverso il campionamento, come elemento ritmico strutturale del pezzo. Quel suono, che ha mosso i primi passi in America, giunge però a maturazione (e al successo) in Inghilterra, dove ben presto speed garage e garage u.k. divengono sinonimi: è un suono in cui la manipolazione e l’utilizzo dei campioni di voce discende direttamente dai pezzi di Edwards, i suoni sono una fusione travolgente di house e drum’n’bass con inserti vocali di ragga. A lanciare e definire il genere ci pensano singoli come “Ripgroove” dei Double 99, “Be Alone No More” degli Another Level, “Never  Gonna Let You Go” di Tina Moore, label come Locked  On e Naughty e un Dj come MJ Cole, che pare quasi la risposta inglese  a Todd Edwards, con un singolo come “Sincere” dal suono molto vicino all’urban: il singolo è del 1998 e già non si parla più di speed garage, bensì di 2 step.

Un cambiamento di nome che riflette una serie di ritocchi stilistici avvenuti nell’ultimo anno: voci e suoni urban si sostituiscono a quelli ragga, le strutture ritmiche divengono più libere, la cassa in 4/4, da sempre elemento distintivo della house, viene privata dei suoi beat pari (da qui il genere prende il suo nome). Il 2 step, portato nelle zone alte della classifica nel 1998 dagli Artful Dodger di “Movin’ Too Fast” subisce un ulteriore sfasamento quando comincia ad essere associato con la scena ed i suoni dell’urban e dell’hip hop inglese, come dimostrato dal successo dei So Solid Crew, collettivo di dimensioni paragonabili al Wu-Tang Clan che raggiunge la vetta delle classifiche nel 2001 con “21 Seconds”. Le conseguenze di questo passaggio si rivelano appieno quando dalle nebbie londinesi emergono due artisti come The Streets e Dizzee Rascal.

Il primo esordisce nel 2002 con “Original Pirate Material”, l’altro esce allo scoperto nel 2003 con “Boy in Da Corner” e per la prima volta l’Inghilterra, che aveva reagito al boom dell’hip hop rifugiandosi nelle narcolettiche atmosfere del trip hop ha i suoi cronisti, anche se scenari e storie non hanno nulla da spartire con quelle narrate dai colleghi americani, e la base sonora è quella sconnessa del 2 step: un ulteriore, importante sviluppo dell’hip hop inglese che fino a quel momento ha visto la sua produzione limitata alle uscite Big Dada. Mentre si celebra il matrimonio tra urban e 2 step il mondo della house non resta a guardare, come dimostrato dai dischi di gente come Basement Jaxx e Audio Bullys, fenomeni di punta della house alternativa e meticcia di fine ’90: ma manca ancora un tassello per poter parlare di ciò.

Nel 1996 la Yellow Productions dà alle stampe “Sacre Blue”, esordio discografico del veterano della dance francese Dimitri From Paris: il disco, un curioso incrocio tra house e lounge, viene nominato disco dell’anno dalla rivista inglese Mixmag. Sono le prime avvisaglie di un’invasione di produttori francesi, house e non, che di lì a poco travolge la scena internazionale: ad accendere la miccia è “Homework”, esordio dei Daft Punk che inaugura il 1997 con una house meticcia e contaminatissima, tra vocoder e funk anni ’80, che è solo un primo esempio di un suono che diventa da subito marchio distintivo della scena francese: house filtrata, funky e  pompata, grasso basso funky ed una matrice disco molto marcata che si riallaccia idealmente alla disco house inglese di inizio decennio.

I Daft Punk non sono in realtà che un tassello (anche se vitale) dell’intricatissima scena d’oltralpe: Thomas Bangalter, vale a dire metà Daft Punk, l’anno successivo oltre a co-produrre con Bob Sinclar l’hit “Gym Tonic”, in coppia con Alan Braxe realizza sotto la sigla Stardust un singolo, “Music Sounds Better With You”, che lancia definitivamente la moda della house filtrata; Braxe dal canto suo, in coppia con Fred Falke, nel 2000, rilascia il superbo singolo “Intro”; Philippe Zdar, che nel 1996 con Etienne De Crècy aveva pubblicato a nome Motorbass il disco “Pansoul”, si riunisce ad Hubert Blanc-Francart, con cui già aveva collaborato in precedenza sotto il nome di La Funk Mob, per formare i Cassius, all’esordio nel 1999 con “Cassius 1999”; dal canto suo De Crècy lo stesso anno dell’uscita di Pansoul pubblica la celebre compilation “Super Discount” in cui, tra gli altri, compaiono Alex Gopher ed Air. Il primo incide nel 1998 il disco “You, My Baby & I” per poi collaborare nel 2002 con Demon (autore nel 2001 del singolo “You  Are My High”) dando vita al progetto e al disco omonimo Wuz: album dal suono più cupo rispetto alle produzioni precedenti sue e dei suoi connazionali, segno che quel suono, che per anni è stato il simbolo della house francese e del french touch ha ormai fatto il suo tempo.

Gli Air, dal canto loro nel 1998, con “Moon Safari”, innescano la seconda ondata della french invasion: nulla hanno però a che vedere  con la house, autori di un pop ambientale che cita Bucharach  e Wilson e si fonde con l’elettronica francese dei primi anni ’80 di Jean Michel Jarre, inserendosi in un più vasto fenomeno di riscoperta dell’easy listening di cui si parlerà più avanti.

Tornando invece alla house degli altri produttori francesi citati bisogna capire come, nonostante alcuni tratti comuni cui si è già accennato, tra di essi esistano enormi differenze: se le radici disco e funky sono una presenza quasi fissa, a variare sono le dosi del cocktail musicale francese: la gradazione disco è altissima nei mix album di Dimitri From Paris, in particolare nello splendido “A Night at the Playboy Mansion” (2000), tra i cui solchi si annidano, tra gli altri, un produttore storico della disco di fine anni ’70  come Cerrone ed il padre della disco house inglese Joey Negro (anche se  in qualità di remixer per conto della Sunburst Band); prevale un irresistibile tiro funk nei dischi dei Daft Punk, gruppo, come si diceva, caratterizzato da un approccio trasversale alla house che porta ad inquadrarlo nel nascente calderone della house alternativa, la leftfield house.

Si tratta, come già accennato, non tanto di un genere, quanto di un insieme di dischi che a fine ’90 cominciano a scardinare le convenzioni della house, proprio nel momento in cui, in parte grazie alla rinascita operata dai francesi, in parte in seguito all’implosione del big beat, gli occhi di tutti sono puntati su di essa. Un gruppo chiave sono senza dubbio gli inglesi Basement Jaxx: i due, in giro dai primi anni ’90, esordiscono su Lp nel 1999 con “Remedy”, disco che rappresenta esattamente quello di cui la scena inglese assediata dagli “invasori” francesi ha bisogno in quel momento, folle miscela di house di New York, hip hop e ragga, condita dagli aromi latini di “Bingo Bango” e dalla house grassa e funky di “Red Alert” che pare quasi un omaggio alla house francese; meno vario ma riuscito il successivo Rooty, del 2001, che aggiunge all’equazione le sonorità e la lezione musicale di Prince, lo stesso anno in cui il Felix Da Housecat di “Kittenz and Thee Glitz” sfonda con lo steso riferimento musicale in mente: segno dei tempi.

Se i Basement Jaxx si rivelano fondamentali per l’evoluzione del suono della house più obliqua in Inghilterra, oltreoceano una delle etichette di punta del fenomeno è la Classic , etichetta di Derrick Carter e Luke Solomon che pubblica, tra gli altri, artisti come Dj  Sneak, Tiefschwarz, Metro Area, Herbert e Greenkeepers, vale a dire la crema non solo della house più sperimentale, ma anche della house tout court. Se l’esordio omonimo del 2002 dei newyorchesi Metro Area è un incredibile esperimento che fonde la house delle origini con la disco pre-boom, un suono minimale ed intricatissimo che è agli antipodi della rilettura della disco fatta dai Dj francesi di cui si parlava poco fa, Herbert è semplicemente colui che meglio incarna il concetto stesso di leftfield house: dagli esperimenti fatti a nome Radio Boy, collage sonori in cui la struttura ritmica è data da “campioni che variano da utensili da cucina a funzioni biologiche” arrivando allo straordinario “Bodily Functions”, disco uscito a suo nome nel 2001 che per l’intricatezza e l’originalità ritmica viene annoverato tra i primi e migliori esempi di microhouse.

Passo indietro: il termine microhouse è stato coniato da Philip Sherburne, giornalista di The Wire per definire un suono che è una sorta di controparte house dei suoni della minimal techno e del glitch pop: con quest’ultimo la microhouse ha in comune la varietà, l’eccentricità e un nuovo modo di utilizzare i samples, a  creare un suono frammentato e sconnesso, con la techno minimale condivide il gusto per la sobrietà dei suoni.

Perlon, Accidental, Kompakt e Playhouse sono le etichette di riferimento del genere, Isolèe, Ricardo Villalobos, Soft Pink Truth, Akufen, Lucien-n-Luciano e Pantytec gli artisti di punta; anche in questo caso lo spettro sonoro è ampio e variegato: se produttori iperminimali come Isoleè e Villalobos viaggiano su un sentiero che costeggia sia la house sia la techno, rendendo difficile l’identificazione, per altri, come l’Akufen di “My Way” (2002) dubbi non ve ne sono, nonostante il suono fratturatissimo e l’eccentricità dei campioni usati. Affine in parte al suono asciutto della  microhouse, in parte alle atmosfere retro dei Metro Area, “You, Me and Us”, esordio del 2002 di Brooks, produttore inglese con una forte propensione per il revival di suoni dei primi anni ’80, tendenza diffusissima in tutte l’elettronica (e non solo) di inizio millennio, dal  boom dell’electroclash alle sonorità electro  house di Playgroup e Chicken Lips, passando per il revival della disco mutante newyorchese , tutti fenomeni che si vedranno meglio più avanti…

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