Storia della musica #54

Indie rock dal lo-fi al sadcore

Se c’è un termine che ricorre per tutti gli anni ’90 a definire le uscite indie ed il loro suono quello è lo-fi (letteralmente bassa fedeltà), ad indicare prima di tutto un sound povero e scalcinato a livello di produzione, ma finendo spesso con l’essere associato anche una certa attitudine, slacker e cervellotica. Sarebbe un’assurdità attribuire agli anni ’90 la nascita del suono lo-fi: quel suono, per cause di forza maggiore, segna in pratica tutte le registrazioni pre-sixties e continua a serpeggiare nei dischi garage-rock e in molti dischi punk dei tardi ’70, divenendo semplicemente un sinonimo di registrazione povera e fai-da-te; e proprio la mentalità del do-it-yourself nata col punk e l’esplosione del college rock americano favoriscono la comparsa sulla scena di una schiera sempre più nutrita di indie rockers che registrano il proprio materiale su 4 tracce analogici: emblematico è il caso dei Guided By Voices, che per tutti gli anni ottanta accumulano valanghe di materiale casalingo che nessuno, fino ai primi anni’90, ha interesse a pubblicare, per poi raggiungere il successo nel 1995 con “Bee Thousand”.

L’ascesa dell’estetica lo-fi (intesa come scelta più che come necessità), ma anche di una certa vena compositiva equamente divisa tra spirito naif ed amore per la dissonanza, è lenta ma costante: i prodromi di quel pop stralunato ed obliquo possono essere intravisti già in un disco del 1980 come “Colossal Youth” degli Young Marble Giants e nelle prime uscite ufficiali (arrivate dopo una lunga serie di introvabili EP), di gruppi come i neozelandesi Chills e Clean, rispettivamente “Brave Words” (1989) e “Vehicle” (1990) che ne rivelano la bizzarra miscela musicale di filastrocche pop e rumore, psichedelia e folk, accostamenti improbabili che fanno tornare alla mente quelli sperimentati nei ’60 dai Velvet Underground.

Gruppo che viene spontaneo nominare anche ascoltando i Pavement di “Slanted & Enchanted” (1992), insieme  ai Sebadoh di Lou Barlow principali responsabili della nascita del culto per quei suoni: il grande merito della formazione di Stephen Malkmus è la capacità di rilanciare il discorso musicale del college rock per gli anni ’90 portando allo stesso tempo avanti il suono del noise-rock di gruppi come Pixies e Dinosaur Jr., ottenendo un risultato musicale che non equivale alla semplice somma delle parti; “Slanted & Enchanted” è un disco che si diverte a fratturare le melodie, in cui si passa in pochi secondi dalla filastrocca alla dissonanza, dalla cacofonia alla pace bucolica del country: pop col coito interrotto che matura e si ripulisce solo un poco nel successivo “Crooked Rain, Crooked Rain” (1994), disco uscito quando il culto del lo-fi (e dei Pavement) è già ampiamente diffuso.

Complici sonori di Malkmus e soci sono, fin dall’inizio, i Sebadoh dell’ex-bassista dei Dinosaur Jr Lou Barlow che trovano con “III” (1991), come suggerisce il titolo terzo capitolo nella discografia del gruppo, una formula musicale che porteranno avanti per tutti i ’90; il disco è parente alla lontana dell’esordio dei Pavement nella bassa qualità delle registrazioni e nella propensione per una forma-canzone vicina alla filastrocca, la cui quiete melodica è disturbata da feedback e dissonanze, ma vanta una struttura più lineare, lontana dal dadaismo compositivo del gruppo di Malkmus.

Se Pavement e Sebadoh risultano essenziali per diffondere le sonorità lo-fi a livello indipendente, altrettanto fondamentali per sancirne la circolazione a livello mainstream si rivelano dischi come “Exile in Guyville” di Liz Phair (1993) e “Mellow Gold”  di Beck (1994): la prima firma un disco che ripercorre nella struttura il celebre “Exile on Main St” degli Stones e costruisce nel frattempo, insieme alla P.j. Harvey di “Rid Of Me” (1993), un’estetica forte di cantautorato femminile che si imporrà, in modo più o meno marcato, per tutti gli anni ’90 e oltre, nei dischi di cantautrici come Fiona Apple, Cat Power e Nina Nastasia. Ancor più influente si rivela Beck, con un suono che fin dall’inizio frulla con disinvoltura hip-hop, country, blues, folk, noise rock, pop e psichedelia, funk, urban, lounge e pop Brasiliano, simbolo perfetto dell’ansia contaminatrice e onnivora del decennio in corso, la stessa che porterà nel corso decennio ad infiniti crossover tra generi e faciliterà la riscoperta dei filoni musicali più oscuri.

La discografia stessa di Beck è attraversata da questo spericolato spirito sperimentale e filologico: se nell’esordio su indolenti ritmiche hip hop si snodano psichedelia, folk, country e blues, col successivo “Odelay” (1996) alla formula musicale si  aggiungono jazz, easy listening e soul; quest’ultima componente tende ad avere la meglio in “Midnite Vultures” (1999), disco in cui la musica nera viene declinata in tutte le sue forme: dal rhythm’n’blues di marca Stax al solito hip hop, passando per il funk di Prince. Lo-fi soprattutto nella veste sonora dei primissimi dischi e nella verve indolente e stralunata che definisce la cosiddetta estetica slacker, il collage sonoro di Beck, gemello di quello creato dai Beastie Boys da “Paul’s Boutique” (1989) in poi, diviene fonte d’ispirazione per innumerevoli atti indie: da chi, come Alabama 3, Scott 4 e i Gomez di “Bring It On” (1998) ne riprende più o meno pedissequamente la commistione di groove hip hop e blues tradizionale dei primi dischi, a chi invece ne eredita lo spirito ecumenico: Bran Van 3000, Beta Band e tutto il giro della Grand Royal, etichetta personale dei Beastie Boys per cui escono Luscious Jackson, Money Mark e Buffalo Daughter .

Dovendo cercare il cuore dell’indie rock lo-fi bisogna però guardare altrove, volgendosi a gruppi più o meno chitarristici che sviluppano nel decennio a venire quell’idea di pop postmoderno, obliquo e sconnesso, resa popolare da Sebadoh e Pavement: artisti come Guided By Voices, Built To Spill, Silkworm, Magnetic Fields, Quasi e Creeper Lagoon. Gruppi comunque diversissimi tra loro, si badi bene: i Built To Spill brillano in dischi che rappresentano la fusione perfetta  di Pavement,  Sebadoh e Dinosaur Jr, dal secondo disco “There’s Nothing Wrong with Love” (1994) passando per “Perfect From Now On” (1997) e per il capolavoro del 1999 “Keep It Like a Secret” ,dimostrazione perfetta del teorema del lo-fi pop: passare attraverso un suono spoglio e primitivo ed una vena noise mai sopita per ottenere un suono pop irresistibile.

Un suono simile abita l’esordio dei Quasi “R&B Transmogrification”  (1997): il duo, composto da Sam Coomes e da Janet Weiss  (batterista delle Sleater Kinney), si differenzia però recuperando melodie senza tempo che riportano alla mente i Beatles psichedelici, i primi Pink Floyd ed i Flaming Lips più lineari. Fuori dal tempo sono anche i dischi dei Magnetic Fields, one-man band che fa perno sulla figura geniale di Stephin Merritt: erede ideale di un filologo del pop come Van Dyke Parks , Merritt sostituisce la pompa cameristica di quest’ultimo con un bricolage lo-fi che anima una lunga serie di dischi partita con “Distant Plastic Trees” (1991) e culminata col capolavoro del 1999, “69 Love Songs”, monumentale triplo disco che passa in rassegna più di 50 anni di pop, dal Tin Pan Alley a Phil Spector, dal doo wop ai Beach Boys, da Burt Bucharach all’ambient pop, dal country al folk, esercizio enciclopedico che è perfettamente in linea con la riscoperta del pop classico che prende piede in quegli anni e di cui si parlerà più avanti.

Una conseguenza immediata del successo di culto di Pavement e compagnia è che l’amore per la melodia disturbata ed il pop sbilenco diviene sinonimo stesso di indie: lo ritroviamo negli esperimenti elettronici di produttori tedeschi  come Tarwater e Schneider Tm, ma anche in un’infinità di dischi a cavallo tra i ’90 e il nuovo millennio ad opera di gruppi come Modest  Mouse, Hymnie’s Basement, Omaha Records, Grandaddy ed Unicorns, tutti artisti che si crogiolano nel celebre binomio “genio e sregolatezza”.

I primi, in dischi come “The Lonesome Crowded West “ (1998) e “Moon & Antarctica”(2000) incrociano  brillantemente Pavement  e roots-rock, confondendo le carte con abbondanti scorie emo, mentre i Grandaddy su “Under the Western Freeway” (1997) e “The Sophtware Slump” (2000) trovano in un pop bucolico e vintage una sorta di via intermedia tra Pavement e Flaming Lips. Questi ultimi sono un riferimento cardinale anche per gli Unicorns di “Who Will Cut Our Hair When We’re Gone?” (2004) che ne rileggono la bizzarra lezione psichedelia dando allo stesso tempo un ideale seguito ai suoni del cosiddetto movimento Elephant 6.

Per capire di cosa si tratta facciamo un passo indietro: con questo nome si indica un collettivo di gruppi che durante gli anni’90 rilegge in chiave lo-fi il versante più pop della psichedelia (Beatles, Beach Boys e Pink Floyd Barrettiani su tutti) coniugandolo, almeno all’inizio, con una muraglia di suoni e rumori che non può che riportare alla mente il wall of sound di Jesus & Mary Chain. Ne fanno parte Olivia Tremor Control, Apples in Stereo, Neutral Milk Hotel, Elf Power, Of Montreal e, più tardi, Ladybug Transistor ed Essex Green: gruppi che, insieme a Quasi, Magnetic Fields e Guided By Voices, rappresentano il lato più pop del lo-fi e che allo stesso tempo testimoniano il progressivo slittamento dell’indie-pop dalle asperità sonore della prima metà del decennio verso eleganti suoni orchestrali e cameristici.

“Fun Trick Noisemaker”, esordio del 1995 degli Apples In Stereo, filtra Beatles, Love e Brian Wilson attraverso un rumoroso wall of sound, coordinate sonore che ritroviamo anche in “Dusk at Cubist Castle”,(1996) degli Olivia Tremor Control, quasi una riscrittura in chiave noise e lo-fi del “White Album” Beatlesiano. Più americani nel suono i Neutral Milk Hotel che con “In the Aeroplane Over the Sea”(1998), ben rappresentano la transizione sonora cui si accennava: da una parte permangono occasionali capatine di rumorismo, dall’altra si assiste ad un timido inserimento di fiati ed altri elementi cameristici.

La transizione si completa con i Ladybug Transistor di “Albemarle Sound” (1998) e gli Essex Green di “Everything is Green” (1999), dischi in cui la vena orchestrale di Burt Bacharach, George Martin e Brian Wilson e il fascino del pop barocco hanno definitivamente la meglio sulle tentazioni noise, in perfetta linea con una tendenza di fine decennio che coinvolge decine di artisti diversissimi tra loro, come Belle&Sebastian, Divine  Comedy e  Decemberists.

Ovviamente l’apporto degli anni’90 al suono psichedelico non si esaurisce ai dischi del collettivo Elephant 6, anzi: nel corso del decennio prendono piede infinite riletture del genere che ne esplorano risvolti diversi e a tratti contrastanti. Centrali risultano innanzitutto due gruppi come Flaming Lips e Mercury Rev. I primi, attivi fin dalla metà degli anni’80 arrivano nel 1993 al primo capolavoro, quel “Transmissions from the Satellite Heart” che inaugura la fase più pop del gruppo e che sarà ispirazione non solo per gruppi già menzionati come Elf Power e Grandaddy, ma più in generale per tutto la corrente neo-psichedelica,  dai Dalgados ai Secret Machines.

Una psichedelia, la loro, che ricongiunge e fonde quanto di meglio detto in campo psichedelico nel corso dei decenni: il noise-pop, la psichedelia inglese dei primi anni ’80 dei Soft Boys e la vena stralunata di Syd Barrett sono filtrati e plasmati in un suono unico e personale dal genio di Wayne Coyne. Il gruppo porta a compimento nel 1999 la sua vena più pop con “The Soft Bulletin” e nel concept “Yoshimi Battles the Pink Robots”: album preceduti dal folle “Zaireeka”, disco quadruplo che richiede un ascolto simultaneo di tutti e quattro i volumi, ennesima dimostrazione del genio eccentrico del gruppo.

Gruppo in cui milita brevemente come chitarrista Jonathan Donahue, frontman dei Mercury Rev, gruppo all’esordio discografico nel 1991 con “Yerself Is Steam”: anche qui traspare una certa fascinazione per il pop, dissimulata solo in parte da colate di rumore bianco ed estatici momenti ambientali; nel successivo “Boces” (1993) il suono comincia a subire delle mutazioni e qua e là cominciano a spuntare suoni orchestrali. Sono i primi passi di un’evoluzione che li porterà nel giro di qualche anno ai fasti sinfonici di “Deserter’s Songs” (1998), sontuoso capolavoro pop del gruppo: alla regia di questa evoluzione c’è il bassista Dave Fridmann, responsabile anche della svolta pop dei Flaming Lips di “Soft Bulletin”.

Esce un anno prima di “Deserter’s Songs”, “Ladies and Gentlemen We Are Floating in Space”, disco del 1997 degli Spiritualized dell’ex-Spacemen 3 Jason Pierce: anche qui i muri di chitarra sono rimpiazzati da muri orchestrali e il suono è arricchito di contaminazioni, ma dove i Mercury Rev spostano definitivamente l’ago della bilancia sul versante pop, gli Spiritualized accentuano l’elemento spirituale del dream pop, contaminandosi col gospel e mantenendo una struttura circolare e ripetitiva.

Si tratta di uno dei tanti dischi che proseguono gli spunti del dream pop e dello shoegaze negli anni’90, insieme con quelli di Verve, Kingsbury Manx, Phaser, Secret Machines e Radio Dept.: solo alcuni dei gruppi che riprendono quei suoni, seppur con modalità radicalmente diverse. Se nell’omonimo debutto dei Kingsbury Manx, del 2000, Ride e Slowdive si sposano col folk di Simon&Garfunkel e Byrds e con la psichedelia naif di Syd Barrett, in un disco come “Now Here Is Nowhere” dei Secret Machines (2004) si va a finire sul versante opposto dello spettro sonoro, fondendo shoegaze inglese, primi Flaming Lips e kraut-rock e riscoprendone la vena più ipnotica; nel mezzo si collocano i Radio Dept. di “Lesser Matters” (2003), sintesi perfetta dello spirito psichedelico inglese di fine anni ’80: Cocteau Twins e Jesus and Mary Chain, My Bloody Valentine, Slowdive e Ride convivono amabilmente tra i solchi di questo disco, rivisti però con la freschezza e l’immediatezza melodica del twee pop.

C’è poi tutta una serie di gruppi che portano avanti il filone psichedelico muovendosi su coordinate musicali diversissime che si vanno a ricollegare alle origini rock di quei suoni: gruppi come Warlock, Jupiter Affect, Brain Jonestown Massacre, Bees ed Outrageous Cherry; anche in questo caso, muovendosi tra un estremo e l’altro dello spettro sonoro, troviamo da una parte un gruppo come i Brian Jonestown Massacre di “Take It from the Man!” (1996), dove l’ossessione per i Rolling Stones è filtrata attraverso la lezione del garage rock, dall’altra una formazione come i Bees ecumenici e calligrafici di “Free the Bees” (2004) che giocano a smontare e rimontare, tra gli altri, i dischi di Byrds, Zombies e Neil Young con un agio ed una disinvoltura che spingono quasi a cedere all’illusione che negli ultimi trenta e passa anni nulla sia accaduto.

A fare da contraltare al florilegio psichedelico degli anni’90 c’è un movimento musicale dalle caratteristiche antitetiche che si sviluppa ad inizio decennio nei dischi di artisti seminali quali American Music Club, Smog e Red House Painters. Il suono di questi gruppi è quanto di più lontano si possa immaginare dalle sontuose architetture, noise ed orchestrali, di gruppi come Apples In Stereo e Mercury Rev, spesso limitato a semplici melodie di piano o chitarra, il tono depresso ed il passo trascinato, la veste lo-fi, poiché tale forma rudimentale ben si sposa con i suoni spogli e le architetture semplici che caratterizzano il genere: per descriverlo viene usato il termine sadcore.

Tra i primi a disegnare quei suoni ci sono gli American Music Club di Mark Eitzel, con dischi come “Engine” (1987), “Everclear” (1991) e “Mercury” (1993), dove Costello e Nick Cave sembrano suonare con i Joy Division come backing band ed in cui il roots rock diviene un mezzo come un altro per rilasciare le confessioni più intime e disperate.

Una strada seguita nei primi anni’90 anche dai Red House Painters di Mark Kozelek, non a caso il gruppo preferito da Eitzel: per la 4AD esce nel 1992 “Down Colorful Hill”, (in realtà una raccolta di demo del gruppo), seguono due dischi veri e propri, omonimi, nel 1993, in cui il gruppo si spinge ancora oltre nella ricerca di un suono spoglio e nell’utilizzo delle canzoni quale strumento per le proprie più intime confessioni di quanto non avessero fatto gli stesse American Music Club, fungendo da ispirazione per decine di gruppi affini come Idaho, Early Day Miners, Sophia e Spain. C’è però, nella musica dei Red House Painters, anche una certa ripetitività di fondo, un andamento mantrico, un passo lento e indolente e un riverbero ovattato che conducono il folk dalle parti del dream pop, come già prima avevano fatto i Galaxie 500 di “On Fire“ (1989) e soprattutto i Codeine di “Frigid Stars” (1990), dove tutto si dilata ulteriormente: i tempi, la voce, il suono distorto della chitarra, tanto che si comincia a parlare di slowcore, in pratica il dream pop degli anni ‘90, folk dal passo lentissimo e trascinato che verrà sviluppato da gruppi  come Low, American Analog Set,Ida, Bedhead e Radar  Bros prima, Movietone, Savoy Grand, Seekonk e Rand & Holland poi.

Fin da subito sulla massa spiccano i Low, all’esordio nel 1995 con “I Could Live in Hope”: da quel disco in poi non sbagliano praticamente un solo colpo arrivando al capolavoro nel 2001 con “Things We Lost in the Fire” e rivoluzionando poi il proprio suono con maggiori aperture al rock in “The Great Destroyer” (2005), culmine di un percorso sonoro che li ha progressivamente portati dal suono mantrico degli inizi ad una maggior ricchezza melodica, a mostrare il volto più pop dello slowcore; un ruolo peraltro condiviso con i Radar Bros, soprattutto in virtù del terzo disco del gruppo, quel “And the Surrounding Mountains” (2002) che sposa il passo indolente dello slowcore con melodie zuccherine e commoventi che lo conducono lontano dal cosiddetto sadcore.

Che è e resta un non-genere, rivelandosi più che altro come un mood, malinconico e agrodolce, che è croce e delizia dei dischi di Elliott Smith fin dall’esordio del 1994 “Roman Candle”, disco che ne rivela la straordinaria miscela di Beatles, Simon&Garfunkel e  Nick Drake; a distanza di tre anni arriva il capolavoro “Either/Or”(1997) dove  l’influenza Beatlesiana è ancora più forte: Smith dai fab four riprende l’incredibile perizia melodica e la sposa con arrangiamenti in chiave lo-fi, suonando tutti gli strumenti da solo e ottenendo risultati mai più eguagliati, né da Smith stesso né dai primi seguaci che compariranno sulla scena, come Jason Anderson e Jeff Hanson.

In uno spazio intermedio tra la ricchezza melodica di Smith e le melodie spesso minimaliste dello slowcore si colloca una lunga serie artisti che comprende Shannon Wright, Hayden, Shearwater, Smog e Cat Power. Come Elliott Smith, Shannon Wright suona tutti gli strumenti (chitarra, piano, violoncello, organo e batteria) da sola nel debutto del 1991 “Flightsafety”, arrivando a tratti a ricordarne anche il suono, più spesso accentuando però quella vena ipnotica e ripetitiva, asciutta e sommessa, che popolava i dischi di Nick Drake.

Anche nel debutto del 1995 di Cat Power, “Dear Sir”, l’influenza di Drake si fa sentire, insieme con quella di Laura Nyro e di Liz Phair, artista per cui, ad inizio carriera, Chan Marshall ( vero nome della cantante) aprirà alcuni concerti: il salto di qualità lo fa con “Moon Pix” (1998), disco in cui si fa affiancare dai due Dirty Three Mick Turner e Jim White e col successivo “You Are Free” (2002) dove il suo suono si diversifica ulteriormente.

Seminale si rivela Bill Callahan (alias Smog) nel ridefinire il folk nell’epoca del lo-fi, con una serie di dischi che da “Forgotten Foundation” (1992) a “Red Apple Falls” (1997) lo vede passare da un pop-rock psichedelico e amatoriale ad una splendida fusione di folk e country che concilia il sussurro distaccato di Nick Drake con il cantato distratto di Lou Reed, trovando nella dimensione acustica la quadratura del suo suono e portando avanti quel folk intimista che era stato di Cohen e poi, appunto, di Drake e che verrà portato avanti negli anni successivi da artisti come Hayden e Shearwater.

Intimismo è un termine che diviene eufemistico quando si va a parlare degli Arab Strap di “Philophobia” (1998), concept album in cui la fine di una relazione importante viene passata al microscopio e sezionata, una canzone dopo l’altra; se l’effetto è voyeuristico il suono è quasi un prolungamento di quello degli Smog, alternanza di minimalismo e spunti melodici quasi classici, cantato strascicato, ritmo indolente: ma qui siamo in Scozia, le radici country sono lontane, ed il cantante Aidan Moffat si fa accompagnare dal polistrumentista Malcolm Middleton e dalla sua drum machine, a creare una sorta di folk elettronico: le differenze sono ancora più evidenti in “The Red Thread” (2001) dove il gruppo scopre le carte e rivela molte più affinità col pop morboso dei Pulp che con quello desolato di Callahan, a rappresentare l’ennesima variante di un modo sconsolato e desolato di concepire il folk che segna buona parte delle produzioni degli anni’90.

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