Storia della musica #53

 Brit pop

Quando si parla di brit pop, normalmente ci si riferisce ad un fenomeno che vive il suo momento d’oro tra il 1993 e il 1997, negli anni cioè in cui in America imperversano grunge ed hardcore melodico: un fenomeno che vede le classifiche inglesi dominate da un’orda di gruppi anglosassoni, il cui tratto comune, pur nelle notevoli differenze, è proprio il forte legame con le radici british.

L’intera esperienza pop inglese, dai gruppi della prima e seconda british invasion ai suoni più pop della new wave e del post punk (Xtc, Madness, Specials, Jam e Wire in particolare), passando per le esperienze del glam di Bowie e Roxy Music, vengono felicemente sintetizzate da questi gruppi e sposate con il pop-rock degli Smith e con la psichedelia degli Stone Roses; allo stesso tempo anche dal punto di vista visivo questi gruppi ripresentano sul palco una visione più classica della rock band, seppellendo così sia visivamente sia musicalmente l’animo etereo del movimento shoegaze: non a caso gruppi come Boo Radleys e Lush, che a quella corrente appartenevano, effettuano a metà anni ’90 una brusca virata stilistica, abbandonando in parte il dream pop ed i feedback alla My Bloody Valentine ed abbracciando strutture musicali più tradizionalmente pop.

I prodromi del brit pop possono essere ravvisati già nell’omonimo debutto del 1990 dei La’s, gruppo college-rock che riesce brillantemente a portare avanti il percorso musicale degli Smiths fondendolo con armonie vocali e melodie pop che sembrano prese di forza dai dischi di Beatles, Hollies e Kinks. Altrettanto importante è un disco del 1993 come “Wild Wood” di Paul Weller in cui, tra citazioni di Traffic e Small Faces, prende il via quella corrente tradizionalista del rock inglese che sarà l’anima più granitica del fenomeno, portata avanti da gruppi come Ocean Color Scene (il cui chitarrista collabora proprio in “Wild Wood”), Shed  Seven, Bluetones,Cast e, soprattutto, Oasis.

Proprio loro sono i protagonisti, anche attraverso il celebre stratagemma mediatico della rivalità con i Blur, della stagione d’oro del brit pop: debuttano con “Definitely Maybe” (1994), principale responsabile, insieme all’esordio omonimo del 1993 dei Suede e a “Parklife” dei Blur (1994), dell’esplosione mediatica del fenomeno e del ritorno definitivo del guitar pop tradizionale nelle classifiche. Sono tre dischi diversissimi che rispecchiano tre diversi sottostili: il disco degli Oasis, come si diceva, si colloca nel revival del rock inglese più tradizionale, ma aggiorna la lezione di Kinks, Beatles e Who alle suggestioni psichedeliche dei gruppi di Madchester (Noel Gallagher era stato il tecnico delle chitarre degli Inspiral Carpets) e ad una certa asprezza di scuola glam. È una formula revivalista, ma riuscitisssima, che tende però a sclerotizzarti con le uscite successive: così, se “(What’s the Story) Morning Glory?” (1995) è un ottimo disco, “Be Here Now” del 1997 incarna in sé molti dei limiti del movimento, ripetendo per l’ennesima volta il solito, usurato canovaccio. Se gli Oasis sono destinati ad appannarsi con la fine degli anni ’90 (come gran parte del movimento) la vena “tradizionalista” sopravvivrà brillantemente alla fine della stagione d’oro del brit pop continuando ad abitare, con stili e modalità diverse, i dischi di gruppi  come Embrace e Seahorses prima, Travis, Shack e Seahorses poi.

Viaggiano su coordinate differenti i presunti rivali degli Oasis, vale a dire i Blur di “Parklife”, il cui suono è una bizzarra miscela di pop ‘60s, Kinks e Small Faces su tutti e new wave inglese primi anni’80, in particolare gruppi come Madness, Jam ed Xtc. Non sono gli unici a citare la new wave, peraltro, se si considera che un gruppo cardine di quell’epoca come i Blondie risulta punto di riferimento assoluto per tutta una serie di gruppi femminili che esplodono nella fase d’oro del fenomeno per poi, nella maggior parte dei casi, tramontare con esso: gruppi come Elastica, Sleeper ed Echobelly su tutti. Sono più virati invece verso il pop-punk gruppi come Supergrass ed Ash: artefici di una bizzarra e strepitosa miscela  di Buzzcocks, Madness e Bowie i primi su “I Should Coco” (1995), fautori di un suono a metà strada tra power pop e punk-pop i secondi con “1977” (1996).

Si staccano ben presto invece dai suoni della new wave, almeno in parte, proprio quei Blur che ne hanno inaugurato il revival, dimostrando, al contrario degli Oasis, una straordinaria attitudine a cambiare ed evolversi: così, se “The Great Escape” segue le coordinate sonore del disco precedente, nel 1997, quando il brit pop sta iniziando a mostrare i suoi limiti, con un abile colpo di reni il gruppo si svela in tutto il suo eclettismo con un disco (omonimo) leggermente più cupo dei precedenti, che si diverte a citare, tra gli altri il grunge, il lo-fi e il Bowie berlinese, iniziando un percorso sorprendente che proseguirà con “13” (1999) e “Think Tank” (2003).

Il terzo gruppo-chiave del brit pop, che tra l’altro ne apre le danze nel 1993 con l’esordio omonimo, sono i Suede, gruppo che riprende l’estetica sonora di protagonisti del glam come Bowie, Roxy Music e T. Rex, e la sposa, ancora una volta, con lo spirito romantico degli Smiths e con atmosfere barocche che fanno rivivere lo spirito di Scott Walker e che ritroveremo in gruppi affini come Pulp, Auteurs e Divine Comedy. A portare avanti la corrente neo-glam pensano gruppi come Placebo e Mansun: i primi, all’esordio col disco omonimo del 1996, esasperano il gioco dell’ambiguità sessuale ed inaspriscono i suoni in una miscela di T. Rex e noise-rock americano (Nirvana, Smashing  Punpkins  e Pixies): una formula che matura ulteriormente col capolavoro “Without You I’m Nothing” (1998); i Mansun, dal canto loro, in “Attack of the Grey Lantern” (1996) sintetizzano passato remoto, prossimo e presente del glam, vale a dire Bowie, Duran Duran e, appunto, Suede.

Rock tradizionalista, revival della new wave e neo-glam sono  termini schematici che ci permettono, con qualche forzatura, di trovare il bandolo della matassa nell’intricatezza di un fenomeno che nel giro di pochi anni produce una vera e propria valanga di band. Alcuni di esse, tuttavia, sono davvero difficili da catalogare: ad esempio gruppi come i gallesi Gorky Zycotic Myncy e Super Furry Animals, che, insieme alle Catatonia mettono il Galles sulla mappa del pop. I primi, con dischi come “Bwyd Time” (1995) e “Barafundle” (1997), si divertono a saltellare dall’inglese al gaelico, unendo nel frattempo la verve eclettica e stralunata di Kinks e Kevin Ayers con il meglio del folk inglese: Fairport  Convention, Donovan e Nick Drake su tutti. Altrettanto eccentrici risultano i Super Furry Animals di “Fuzzy Logic” (1996), affini per molti versi a Blur e Supergrass nelle atmosfere e nei suoni, ma in grado di aggiungere al suono una certa verve psichedelica di marca Barrettiana.

L’elemento lisergico è ancora più spiccato nei dischi dei Verve, tra i migliori nel portare avanti il discorso dello shoegaze negli anni ’90, in particolare nell’esordio del 1993 “A Storm in Heaven”: nel successivo “A Northern Soul” (1995) per descrivere il suono del gruppo si può già parlare di psichedelia tout court, dove alle atmosfere oniriche e spaziali si lega una spiccata sensibilità pop destinata a maturare nel terzo ed ultimo disco del gruppo, il capolavoro “Urban Hymns” (1997) uno dei dischi-simbolo del passaggio dal brit-pop al suo “post” .

La stessa sensazione che si ha ascoltando i dischi dei Radiohead: il gruppo di Oxford, partito nel 1993 con “Pablo   Honey”distinguendosi già dai suoi contemporanei nonostante il suono ancora acerbo per i ripetuti ammiccamenti al rock americano di R.e.m. e Nirvana, compie con “The Bends”(1995) e “O.k. Computer”(1998) un miracolo che riesce di rado nella storia del rock: prendere influenze note ed ottenere un risultato che non è una semplice somma delle parti, ma un suono alieno e (nel suo piccolo) rivoluzionario. Impresa riuscita pochi anni prima a gruppi come Pixies e Nirvana, tra le principali influenze, insieme a formazioni inglesi come Pink Floyd e Suede, del gruppo di Thom Yorke, vocalist che fonde la vena calda di Morrissey con l’epica degli U2 e la verve lirica di Jeff Buckey, straordinario artista americano che con “Grace” (1994) da vita in questi anni ad un ambizioso disco che coverizza Nina Simone e Leonard Cohen, oscilla tra folk, jazz e soul e cita il padre Tim ed il Van Morrison di Astral Weeks.

La vena malinconica e le voci allo stesso tempo spettrali e angeliche di Buckley e dei Radiohead si estendono come una gigantesca ombra su gran parte del pop-rock (non solo inglese) a venire: Doves, Coldplay, Autumns, Muse, Elbow, Starsailor e Veils sono solo alcuni dei gruppi che ne ripropongono la vena sofferta, ognuno a modo suo…

Se i Doves, con “Lost Souls” (2000) e “The Last Broadcast” (2002) creano degli splendidi bignami del brit pop attraverso pezzi che citano brillantemente Radiohead, Oasis e Verve, trovando comunque il tempo di coverizzare i King Crimson di “Moonshine” e di affiancarsi al leader degli High Llamas Sean O’Hagan su “Friday’s Dust”, i Coldplay di “Parachutes” (2000) rileggono il pop dei Radiohead sotto una luce meno malinconica ed in chiave più tradizionale e divengono fenomeno da classifica col secondo disco “A Rush of Blood to the Head” (2002); i Muse, dal canto loro, fin dall’esordio del 1997 “Showbiz” e ancor di più nel successivo ”Origin of Symmetry” (2001) fondono  mirabilmente Nirvana e  Radiohead, esasperando i toni tragici e le sonorità drammatiche di questi ultimi e portandone le intuizioni sonore originarie a lambire il metal ed il progressive; lo spettro di Buckley aleggia invece in “Love Is Here” (2002) e “Silence Is Easy” (2004)  degli Starsailor: dischi che confermano ancora una volta quanto ingombrante sia l’eredità musicale di Radiohead e Buckley nell’epoca del post brit pop.

Fatto evidente fin dai tardi anni ’90, tanto che quando  nel 2000 i Radiohead si trovano a dover dare un seguito all’osannato “O.k. Computer” decidono di esorcizzare le tensioni e spiazzare i fan optando per la svolta stilistica di “Kid A”, disco in cui la voce di Yorke scompare e riappare triturata e vocoderizzata, persa tra sonorità che ricordano da vicino la techno sperimentale di Aphex Twin e Autechre e che li conducono in una dimensione sempre più distante dal brit pop, quella dell’indie electronic.

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