Drew Holcomb & The Neighbors - Strangers No More (2023)

di Gianfranco Callieri

Nel celeberrimo L’Uomo Senza Qualità, «romanzo-mondo», come non se ne fanno più (per mancanza di ambizione o ristrettezza di vedute, fate voi), dell’austriaco Robert Musil, il protagonista Ulrich, esasperato dalla propria mancanza di concretezza, chiede alla sorella Agathe, «Come devo vivere?». «Bisogna tentare», risponde lei, alzando le spalle, come se la differenza tra provare a vivere, sporcandosi le mani, cadendo e rimettendosi in piedi, e il semplice illudersi di saperlo fare fosse talmente evidente da non doverle dedicare una sola parola in più. Drew Holcomb & The Neighbors, da Memphis, Tennessee, sono in circolazione ormai da vent’anni, durante i quali hanno pubblicato, con pazienza e metodo, uno sproposito di dischi, tutti così "costruttivi" nel loro rifarsi alle buone maniere del rock da FM americana, così "diluiti" nella gentilezza di una scrittura citazionista tanto corretta quanto inoffensiva, così "estranei" sia al chiasso inutile sia alla sonorizzazione da sfondo salottiero, che era impossibile non suscitassero una certa simpatia, perlomeno la stessa riservata a chi, nell’odierna confusione e ingenuità di linguaggi, ripercorra con affetto sincero i suoi riferimenti culturali, magari trasformandoli in altrettanti segnali di radicamento all’interno di un patrimonio di ascolti ampio e trasversale.

Già, perché se l’amore di Holcomb e soci per il rock and roll della classe operaia è fuori discussione (d’altronde, il cantante si è laureato con una tesi su Bruce Springsteen), i numerosi album di rivisitazioni dell’altrui repertorio da loro realizzati - uno appannaggio del gruppo al completo, addirittura tre confezionati, in acustico, dal solo Holcomb e dalla moglie - mostrano anche quanto vasto e, diciamolo pure, generico possa risultare il serbatoio delle fonti d’ispirazione di volta in volta invocate, un calderone all’insegna dell’ecumenismo dove i santini, inevitabili (e ci mancherebbe altro), di Johnny Cash, Hank Williams, Tom Petty, John Prine e Joni Mitchell vengono affiancati da Sting, U2, Beyoncé, Bruno Mars, Adele, Justin Timberlake e OutKast in un marasma di stili solo apparentemente sfaccettato e in realtà accomunato, proprio come quello che potremmo trovare nel cestone delle offerte di un qualche hard-discount, da un’assenza di personalità tale da renderlo buono per tutte le stagioni.

Fino all’ancora piacevole Good Light (2013) e soprattutto all’ottimo Medicine (2015), il candore roots-rock di Holcomb e dei "vicini di casa" (ragione sociale di per sé connotata da un senso di ordinarietà e banalità tutt’altro che avvincente) ha funzionato piuttosto bene, ma dopo il successo inaspettatamente riscosso dal secondo e la conseguente, ulteriore professionalizzazione dei gesti del gruppo, la pretesa di universalità ha preso il sopravvento, di fatto rendendone ancor più piatta, modesta, anonima e impersonale la proposta. Ora, dire cosa non vada in Strangers No More, che sembra un disco (un po’ sgonfio, diciamo) del Paul Simon di fine ’70, presenta due pezzi scritti a quattro mani da Ketch Secor degli Old Crow Medicine Show, si concede spesso il velluto del soul (mica si nasce a Memphis senza nessuna ragione), è stato prodotto da Cason Cooley senza mettere fuori posto una singola nota e anzi, sistemando con precisione certosina chitarre elettriche e contrabbassi, fiati e Mellotron, percussioni e B3, non è così semplice.

Si potrebbe sottolineare come il ritmo digitale di una Dance With Everybody eseguita con i National Parks, ancorché nemmeno troppo dozzinale, somigli in maniera impressionante a quello usato, col pilota automatico, da centinaia di formazioni dell’area indie-folk venute a galla nell’ultimo decennio, spiegare perché Find Your People (malgrado gli spassosi interventi del banjo) guardi ai Police ma finisca dalle parti di Mike & The Mechanics, censurare l’eccesso di stucchevolezze nel funky-soul di All The Money In The World o supplicare per un’idea di folk-rock meno artefatta e leziosa di quella espressa nell’estenuante Gratitude. Ma sarebbe inutile, in quanto anche gli episodi più riusciti, da una Strange Feeling inaugurata da un bel riff elettrico alla John Mellencamp (poi risolta in un arioso e coinvolgente folk-pop) al delizioso congedo country-rock di Free (Not Afraid To Die), soffrono tutti lo stesso atteggiamento, e cioè quello di non voler scontentare nessuno persino a costo di apparire puramente illustrativi se non addirittura evasivi. Per questo, vi dicevo, indicare cosa non funzioni, in uno Stranger No More scolpito nei minimi dettagli affinché il suo contenuto non dispiaccia a nessuno, è maledettamente difficile. Dire invece cosa funzioni, però, è letteralmente impossibile.

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