Storia della musica #38

 I revival degli anni ’80 

Se fenomeni degli anni ’80 come synth pop e college-rock guardano parzialmente al passato, recuperando, rispettivamente, sonorità glam e folk-rock, ma filtrando, contaminando e storpiando quel recupero attraverso la lente deformante del fenomeno new wave, quasi contemporaneamente, avviene in altri luoghi e attraverso altri gruppi, un recupero di tradizioni musicali più antiche.

Anche in questo caso però il recupero non può prescindere dagli eventi che hanno segnato il rock nei decenni: nuovi gruppi e suoni sono ormai entrati a far parte del dna musicale americano, dai Velvet Underground a Bob Dylan, dal country-rock alla psichedelia  passando per il Garage, i ’60s sono ormai parte dell’eredità storica del rock americano e quindi anche gruppi che ripropongono le sonorità senza tempo del country o del roots rock non possono che risentire di quelle influenze, più o meno consapevolmente.

L’esempio più indicativo è il fenomeno del cosiddetto Paisley Underground, rivisitazione del jangle pop dei Byrds attraverso il prisma sonoro della psichedelia: è un fenomeno di breve durata, che dura lo spazio di pochi anni, dall’inizio alla prima meta degli anni’80, e coinvolge gruppi come Dream Syndicate, Rain Parade, Green On Red, Three O’Clock e Long Ryders.

Sono i Dream Syndicate ad aprire le danze, con “The Days Of Wine And Roses” (1982): il gruppo è influenzato tanto dai Byrds, quanto dai Velvet Underground (straordinaria la somiglianza del cantato di Steve Wynn con quello di Lou Reed), anticipa R.e.m e Smiths nel ritorno al rock chitarristico, anche se non ne condividerà le fortune artistiche; nel successivo “Medicine Show” (1984) Neil Young diventa l’influenza dominante del gruppo, mentre con “Out of the Grey” (1986) il gruppo sembra perdere quell’aura magica che l’aveva reso immune dai suoni new wave.

Diversa è la rilettura del suono dei Byrds fatta dai Rain Parade, specie nell’esordio del 1983 “Emergency Third Rail Power Trip”, disco che del gruppo di McGuinn recupera la vena più psichedelica, fondendola con l’indolenza Barrettiana, pietra miliare della psichedelia anni’80 avvicinabile idealmente a “Sixteen Tambourines”, disco del 1983 dei The Three O’Clock, in cui, però la psichedelia di riferimento è quella dei Beatles di “Sgt. Peppers”, la vena melodica ancor più sfacciata, più vicini ai Byrds folk-rock (anche se elettrizzati da una certa carica garage rock) i Green On Red di “Gravity Talks” (1983), a quelli country-rock i Long Ryders di “Native Sons” (1984).

Suoni differenti che rendono chiaro come il jingle jangle della chitarra di McGuinn, l’unico elemento a legare tra loro i dischi dei Byrds nelle diverse fasi (folk, psichedelica e country), è per molti versi anche il principale elemento comune dei fenomeni riuniti nella scena del Paisley.

D’altra parte i Long Ryders sono spesso citati come capiscuola del cosiddetto movimento cowpunk, antenato dei primi anni ’80 dell’alternative country, che fa rivivere la tradizione del country attraverso l’abrasività e la violenza del punk: per farsi un’idea ancora migliore del fumoso concetto è sufficiente ascoltare “Lost And Found” (1985) di Jason And The Scorchers, ottimo esempio di questo cozzare tra tradizione e rivoluzione.

Da un abbinamento iniziale simile prendono le mosse anche i Meat Puppets, propendendo però più verso l’hardcore che non il punk e tingendo la miscela di suggestioni psichedeliche, in un disco come “Meat Puppets II“ (1983), uscito per la solita SST: nei successivi “Up On The Sun” (1985) e “Huevos” (1987) il suono dei gruppo subisce una forte evoluzione stilistica, abbandonando in parte la vena hardcore iniziale e approfondendo il versante più psichedelico del proprio suono, fondendolo con l’hard rock dei ZZ Top in alcuni casi, con il folk-rock di Neil Young.

I gruppi del Paisley Underground e i cosiddetti cowpunkers sono solo frammenti del generale rinnovamento vissuto dal country-rock sotto la maschera rassicurante del revival: da una parte c’è la fusione con la psichedelia e il mariachi coniata nel 1988 dai Giant Sand di “Love Songs”, disco peraltro preceduto da una ridda inestricabile di uscite ed esperimenti che vedono il gruppo di Howe Gelb passare da emulo dei gruppi Paisley a leggenda del rock alternativo, dall’altra c’è il country rock acido e scuro dei Thin White Rope di “Exploring the Axis” (1985), un suono ossessivo e lugubre, psichedelico e lirico, prototipo di rock desertico che anticipa nelle atmosfere e nel mood lo stoner rock dei Kyuss e, soprattutto, l’hard rock dei Queens of the Stone Age.

Ma è proprio nella Nashville capitale del country che hanno luogo le più importanti rivisitazioni del country, grazie a gente come Lyle Lovett e Steve Earle: dello stesso anno, il 1986, i rispettivi debutti, opposte le direzioni intraprese per rinnovare la musica della tradizione: lo conduce verso le atmosfere del jazz e del pop l’uno, verso l’heartland rock di Springsteen il secondo.

Il country non è però l’unico suono tradizionale ad essere rivisitato durante gli anni ’80: c’è tutta una serie di gruppi che si rimette sulle orme della Band e dei Creedence Clearwater Revival andando a buttarsi in quell’indefinito calderone di tex-mex, gospel, rhythm’n’blues, boogie, swamp blues e rock’n’roll che è il roots-rock. I primi sono i Blasters, all’esordio nel 1980 con “American Music”, eccellente rivisitazione del più classico rock’n’roll, più eclettici nel gioco di recupero dei suoni classici i Los Lobos di “How Will The Wolf Survive?” (1983), tra country, rock’n’roll, blues, tex-mex e rhythm’n’blues. Dietro, una lista di artisti quali Del Fuegos, Pontiac Brothers, Beat Farmers e Del Lords a condividere anche il breve momento di boom commerciale che della fine degli anni ’80, fenomeno di breve durata che trova il suo picco nella cover di “La Bamba” dei Los Lobos.

Se i revival di country e roots rock sono fenomeni tutt’altro che nuovi nella storia del rock, inedito è il revival garage-rock che dilaga a metà anni ’80, non solo negli Stati Uniti, ma anche nella lontana Europa, non solo Regno Unito, ma anche, svolta piena di conseguenze per gli sviluppi futuri della storia del rock, la penisola Scandinava: così, accanto a gruppi inglesi come Prisoners, Walking Seeds e Barracudas e agli americani Fuzztones, Fleshtones, Mono Men e Chesterfield Kings spiccano i finlandesi Nomads, vera e propria istituzione del garage-rock; a dargli manforte ci pensano gli Svedesi Hanoi Rock, con un hard-rock stradaiolo figlio delle New York Dolls quanto del glam-metal di Kiss e Alice Cooper. Sono i primi presagi della nascita di una scena che culminerà nei tardi anni ’90 con un invasione di gruppi scandinavi che porteranno brillantemente avanti la tradizione musicale locale, miscela di hard-rock sferragliante e garage-rock vintage.

Nel frattempo però, anche dopo la fine del periodo d’oro del revival-garage della prima metà degli anni ’80, grazie ad etichette come Estrus, Symptahy For The Records, Bomp e Crypt il culto di quel suono, (organo farfisa – 3 accordi di chitarra passati attraverso il fuzz – melodie tra Sonics, Stones e Kinks) si manterrà intatto fino ai giorni nostri per poi riemergere col successo di gruppi come White Stripes e Von Bondies.

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