John Mellencamp – Strictly A One-Eyed Jack (2022)

di Lorenzo Donvito

Avremmo pensato convinti che John Mellencamp non si filasse più di tanto il Boss: troppo dentro gli schemi del mainstream, troppo buonista e corretto, il classico buon ragazzo americano agli antipodi dai suoi modi di fare. Little Bastard, non per nulla, è uno dei suoi nomignoli e non sarà certo per le buone maniere a cui ha abituato i musicisti con cui suona o il pubblico che assiste ai suoi concerti. Se non fosse la serata giusta, sarebbe capace di mollare il palco dopo un’ora e mandare tutti a quel paese... Mellencamp ci ha abituato a storie così, ma anche a una musica senza fronzoli, decisa, tagliente come i testi che la accompagnano, pervasi di un romanticismo molto più spiccio rispetto a quello del fratello maggiore Bruce (sono solo due anni di differenza) che in questo “Strictly A One-Eyed Jack” partecipa in tre pezzi.

John stesso ha dichiarato di essere stato sempre considerato "il Bruce dei poveri", probabilmente per l’attivismo sociale (Mellencamp è uno dei creatori del Farm Aid) e le stesse radici musicali (Woody Guthrie per entrambi è una guida spirituale) e che i due si conoscono da anni, ma senza mai essere entrati troppo in confidenza. La storia rimanda al 1988, un'apparizione di Springsteen durante il tour dell’album “The Lonesome Jubilee” per gridare insieme “Like A Rolling Stone”, di cui purtroppo non ci sono tracce in Rete. Nel 2019 i due si rincontrano all’evento benefico “Rainforest”, organizzato da Sting a New York, e suonano insieme “Pink Houses” e “Glory Days”. John racconta che da quel momento Bruce improvvisamente è diventato suo fratello maggiore e, come se fossero amici da una vita, la collaborazione è semplicemente successa: è andato in Indiana (Mellencamp come Springsteen vive nella sua hometown) rimanendo a casa sua per alcuni giorni. Da lì sono usciti i tre pezzi insieme su “Strictly A One-Eyed Jack”.

Il primo duetto è il singolo “Wasted Days”, uscito nel 2021 preannunciando l’album: una ballata dalle parti di “You’re Life Is Now” (nell’Lp “John Mellencamp” del 1998) con una fisarmonica a tessere il riff e la chitarra fresca fresca dall’ultimo Springsteen di “Letter To You” (2020). Nulla di nuovo, quindi, è difficile aspettarsi grossi guizzi da questi rocker dalle voci consunte come un vecchio cinturone di pelle. Quasi tutti i versi iniziano con un How Many o un How Much, ma i due ci vogliono condurre su terreni meno universali da quelli battuti negli esordi da Dylan: “Come può un uomo guardare la sua vita andare in malora?/ Quanti momenti ha perso oggi?/ E chi di noi potrebbe mai vederci chiaro?/ La fine sta arrivando, è quasi arrivata”, terminano alternandosi sulle strofe.

“Did You Say Such A Thing” è la seconda prova, si apre con un riff swamp in stile Fogerty con un richiamino a “Pink Houses”, le liriche optano per un’acida invettiva contro qualcuno che ha parlato come non avrebbe dovuto, forse i gossip a cui Mellencamp è spesso stato sottoposto (con l’attrice Meg Ryan negli ultimi anni si è preso e lasciato alimentando i tabloid): “Quello che la gente dice di me non conta molto/ Credo che alcuni possano essere sinceri, ma di chi ci si può fidare?”.

“A Life Full Of Rain” infine, è l’ultima del disco: la fisarmonica iniziale si affaccia sulla trama del pianoforte, siamo intorno ai resti di un circo che ha appena abbandonato il suo set: “È stato tutto un trucco/ Un piccolo gioco di prestigio/ Come il clown nel circo/ Che racconta una storia ma nessuno capisce”. Springsteen, senza mai intervenire alle voci, geme alla chitarra un solo lancinante come la tristezza degli ultimi versi e il pezzo si ricongiunge con quello iniziale, la folkie e oscura “I Always Lie To Stranger”. “Mento sempre agli estranei/ Sono un uomo di basso rango/ Questo mondo è gestito da uomini/ Molto più infami di mе”, canta Mellencamp, distillando quello che dichiara aver imparato nei suoi 70 anni. Nonostante pensasse di sapere cosa succedesse nella sua vita, è stato sempre preso di sorpresa: le persone della casa discografica, il pubblico, senza parlare delle relazioni personali. Invecchiando, ha scoperto di non avere la minima idea di quello che gli accada intorno, delle reazioni provocate negli altri, “non conosciamo veramente nessuno al mondo tranne noi stessi e non conosciamo nemmeno noi stessi”, conclude.

Il titolo dell’album si riferisce quindi a un personaggio cinico che ha ideato come narratore delle canzoni: "La carta più pericolosa del mazzo è il Jack con un occhio solo (il One-Eyed Jack del titolo)… ha una spada dietro la schiena", ed è lui stesso a impersonarlo nel dipinto eseguito dal figlio sulla copertina dell’album.

Tutte le liriche del disco sono permeate da questo senso di sfiducia, mentre la terza età di Springsteen, nell’ultimo “Letter To You”, sembra dedicarsi a venerare il culto dei morti, quella di Mellencamp rimane ferocemente incazzata per non aver probabilmente capito nulla della vita: “Quando ero giovane/ Le responsabilità erano nulle/ Quando ho sbagliato è stato divertente/ E non c'era lavoro da fare/ Ma ora tutto è cambiato”, continua in “Driving In The Rain”, un lento e melodico country dalle venature jazzy.

“I Am A Man Of Sorrow” è striata di blues e ci riporta dalle parti più roots di “Rough Harvest” (1999): “Sono preoccupato per le parole che sto sentendo/ Sono preoccupato per tutte queste cattive notizie/ So che è una maledizione/ Che non andrà mai via”, canta, e se la chitarra si arrampicasse su qualche scala sbilenca come quelle di Marc Ribot, potremmo scambiarlo per il miglior Tom Waits.

“Streets Of Galilee” è un folk dylaniano e ruvido, con tanto di riferimento biblico che rimarca l’illusione in cui cadiamo davanti alle persone che ci fanno credere quello che non è: “Se pensi di vedere qualcosa in me/ E c'è qualcosa a cui puoi credere/ È la tua illusione che vedi/ Sei solo perso nel buio/ Per le strade della Galilea”.

Il contrabasso che apre “Sweet Honey Brown”, per i primi cinque secondi, ci spedisce nel passato citando “Under The Boardwalk” (canzone ripresa da Mellencamp nel già citato “Rough Harvest”), poi entra un violino a tessere il riff e cambia tutto, la canzone esplode nel ritornello sostenuto da una gracchiante chitarra elettrica. “Bene, il ruggito di questo vivere/ Riempie le mie orecchie/ Tutti pensiamo a noi stessi/ A come siamo arrivati fin qui”, e se anche volesse essere un pezzo d’amore, si perde nel cinismo delle nostre esistenze.

“Gone So Soon” inizia jazz quanto basta a ingannarci che, oltre a Springsteen, partecipi al disco di nuovo Waits: la voce di Mellencamp con gli anni e le sigarette (tabagista convinto da quando aveva 10 anni) si è incatramata e le parole emergono dagli abissi: “Tutti i progetti che abbiamo terminato insieme/ Ora vengono rifatti con qualcun altro/ Non mi resta più niente da dire/ Accetto solo che te ne sei andata così presto”.

“Simply A One-Eyed Jack” è la partita a carte che stiamo giocando dall’inizio del disco, se non fosse per la voce consumata potrebbe arrivare da quel “Big Daddy” (1989) che aveva orientato la sua bussola dal rock verso la tradizione americana. Dagli Appalachi al blues, la strada è lunga, ma Mellencamp l’ha ripercorsa durante tutta la carriera senza mai una giocata sbagliata: “Mi piacerebbe andare in un posto sicuro/ Guardare il mondo mentre cambia/ E diventare un cantante folk/ Cantare una canzone che fermi la corruzione e il dolore/ Ma non c'è motivo per farlo ora/ Succeda quel che succeda siamo molto lontani da raggiungere questa situazione/ Faremo meglio a fare una mossa o diventeremo le vittime/ Di quel Jack bugiardo con un occhio solo”.

Gli armonici di “Chasing Rainbows” sono presi in prestito da “For What It’s Worth” dei Buffalo Springfield, poi la canzone, scelta come secondo singolo, va da tutte altre parti con un coro un po' sguaiato sul ritornello. Forse è quello che serve per allontanarsi “da questo mondo di finzione, che tutti crediamo sia vero”, fregarsene dei cori perfetti e lasciarsi sorprendere da dove termini l’arcobaleno, ovunque sia. L’unico tema con una nota positiva in tutto il disco.

“Lie To Me” si apre con un riff bluesy preso in prestito da “American Fool” (1982), i beat rallentano, anche perché sono passati una quarantina d’anni da quel disco e un pianoforte, impensabile per quei primi 80, si affaccia a condire le liriche: “Quindi mento a me stesso/ Beh, le chiese e i predicatori lo fanno/ Quindi mento a me stesso/ Anche i libri di storia e gli insegnanti lo hanno fatto”.

Viene facile, alla fine dell’ascolto di “Strictly A One-Eyed Jack”, paragonare John al fratello maggiore acquisito: due stili e due scritture distanti, seppur così vicine alla stessa tradizione. Springsteen ha seguito una strada più spaziosa, perdendosi tra stili che non gli sono così congeniali (la West Coast di “Western Stars” del 2019) e un sound che ha cercato continuamente di aggiornare tra ristampe di antichi capolavori e celebrazioni di eterni ritorni con la E Street, ma senza avere in mano la quantità di pezzi giusti per riacciuffare i glory days. Ha lasciato indietro la spontaneità per un certo manierismo, e quelli che gli avevano creduto veramente sono rimasti a bocca asciutta. Quasi avesse paura di perdere quel pubblico che ritrova sempre fedele nella dimensione live - ormai le date dei suoi tour sono molto più attese delle sue uscite discografiche.

Diverso il discorso per Mellencamp. Dopo le fusioni con sonorità contemporanee spesso andate a buonissimi fini come in “Human Wheels” del 1993 (ma va bene anche “Mr Happy Go Lucky” del 1996), da anni suona anche i suoi classici più rock, come fossero stati scritti da Pete Seeger o Willie Nelson. Ascoltare per credere “The Good Samaritan”, live registrato già venti anni fa in giro e gratuitamente per le strade americane, accompagnato da una roots band, senza grandi impianti e proponendo cover (da “All Along The Watchtower” a “Street Fighting Man”) insieme a poche hit personali.

Il piccolo bastardo negli ultimi venti (!?) anni si è mosso sempre più verso le origini dell’Americana e includiamo appieno nel percorso “Strictly A One-Eyed Jack”. Le canzoni, dodici, brillano per la pulizia degli arrangiamenti, mai tronfi o forzati, e le sbavature volute a sporcarle lasciano poche concessioni a qualsiasi easy listening.

“Non è un disco per tutti”, conferma John, in fondo era proprio lui che cantava in “Pop Singer” (su “Big Daddy”): “Non ho mai voluto essere un cantante pop/ Non ho mai voluto scrivere canzoni pop”.

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