Respect: come Aretha Franklin divenne la regina del soul

 di Luca Divelti

Sul finire del 1966 Jerry Wexler aveva deciso di portare nella sua scuderia un nuovo talento, cristallino a detta di chiunque, ma fino a quel momento incapace di esprimere tutto il proprio potenziale.

La sua Atlantic Records aveva poco da perdere e probabilmente molto da guadagnare nel mettere sotto contratto quella ragazza dalla voce incredibile, che senza troppi rimpianti era stata accompagnata alla porta dalla Columbia, stanca di aspettare che diventasse la nuova Billie Holiday: Wexler non poteva perdere l’occasione di ingaggiare una voce con così tante sfumature, pronta a scalare le vertiginose vette delle ottave più irraggiungibili con la stessa noncuranza con cui sapeva sprofondare nelle note più basse.

Così all’inizio del 1967 Aretha Franklin entrava nella famiglia della Atlantic, consapevole di giocarsi l’ultima occasione per dare una svolta alla sua carriera: l’artista ventiquattrenne sapeva che le lancette correvano veloci e che dopo sei anni passati a incidere canzoni pop, incapaci di dare il giusto risalto alla sua voce leonina, era ormai prossima a passare da stella precoce a promessa mancata.

Apparivano lontani i giorni in cui si esibiva con le sorelle Carolyn ed Erma nel coro della New Bethel Baptist Church di Detroit, dove officiava suo padre, figura centrale nella sua formazione non solo musicale.

Clarence LaVaughn Franklin era un ministro battista tra i più carismatici e pagati in tutti gli Stati Uniti, tanto da venir soprannominato “la voce da un milione di dollari”: Mr. Franklin non si limitava però ai soli sermoni in chiesa e in radio, ma la sua attività pastorale abbracciava anche il movimento dei diritti civili, di cui era uno dei maggiori e autorevoli sostenitori.

Se durante gli anni cinquanta e sessanta si passava al 7415 di La Salle Boulevard non era insolito incontrare personalità, politici e attivisti che si riunivano presso la villa dei Franklin, centro di gravità culturale di Detroit.

Aretha e le sue sorelle erano cresciute in questo ambiente progressista dove avevano incontrato grandi musicisti a cui si sarebbero ispirate (come Sam Cooke, Dinah Washington, Clara Ward e Mahalia Jackson) e i maggiori rappresentanti del movimento dei diritti civili, tra cui spiccava Martin Luther King.

Per permettere finalmente al suo talento di emergere e affermarsi, liberandolo parallelamente dalla piattezza pop a cui era stato relegato, Aretha sapeva di dover cambiare qualcosa nella sua musica: forse riallacciare i suoi legami con il gospel, allargando così il suo registro soul, poteva essere il passo da compiere nell’Atlantic.

Dal canto suo Jerry Wexler era convinto che un maggior coinvolgimento della sua nuova stella negli arrangiamenti e nella scelta dei brani, che le facesse abbandonare l’insoddisfacente strada delle ridondanti orchestrazioni di archi, sarebbe riuscito a far emergere anche su disco quel fuoco sbalorditivo tirato fuori da Aretha nei suoi concerti: quindi l’accordo sembrava potenzialmente proficuo per entrambe le parti, a patto che la svolta si concretizzasse come sperato.

Le prime sessioni di registrazione di Aretha Franklin sotto la nuova etichetta si tennero a gennaio presso i Fame Studios in Alabama: Wexler sperava che Rick Hall e i suoi Muscle Shoals riuscissero di nuovo a fare la magia, dopo aver risollevato con il loro contributo solo pochi mesi prima le sorti di Percy Sledge e Wilson Pickett.

Aretha, come suggerito da Wexler, si posizionò al pianoforte e abbozzò I Never Loved a Man (The Way I Love You), brano che prese vita poco a poco grazie all’aggiunta sapiente delle parti ritmiche e i fiati, fino al risultato finale che piacque a tutti i presenti: incredibilmente il nuovo sound cercato da Aretha e Jerry si era materializzato in poche ore di lavoro.

Gli struggenti e sensuali vocalizzi venivano amplificati e supportati da un contesto sonoro finalmente adeguato e anche la canzone, scritta da Ronnie Shannon, sembrava ugualmente cucita a perfezione sulla personalità della cantante, la cui interpretazione lascia trasparire alcune delle sue difficoltà dell’epoca.

Non era un mistero che il suo rapporto con il marito e manager Ted White fosse alquanto burrascoso e che la situazione fosse tutt’altro che rosea tra loro: storie di maltrattamenti e litigi violenti gettavano più di un’ombra su quel matrimonio, che era assai distante dal felice quadretto che il manager e la cantante si sforzavano di vendere ai media.

Anche la famiglia e le persone più vicine ad Aretha sembravano sempre più insofferenti verso White, considerato fin da subito un losco approfittatore per il fatto di aver sedotto una fragile diciottenne lavorando sulle sue molte insicurezze (la madre se ne era andata di casa quando era piccola e quando conobbe Ted aveva avuto già due figli da due ragazzi diversi).

La difficile natura di White era venuta a galla anche durante le sessioni ai Fame Studios, che furono interrotte dopo un violento litigio tra lo stesso Ted e Melvin Lastie: il musicista venne accusato di aver fatto delle avances ad Aretha tra una prova e l’altra e questo fece infuriare il manager.

Subito dopo la lite White pretese che il trombettista venisse licenziato, ma il netto rifiuto di Rick Hall portò alla fine del soggiorno in Alabama della coppia.

Anche per questo, su decisione di un furente Wexler, i successivi brani sarebbero stati registrati a New York senza Ted White, a cui era stato fatto intendere, senza neanche tanti giri di parole, di non essere più persona gradita.

Così, quando dieci giorni dopo i lavori ripartirono quasi da zero, Aretha presentò a Wexler e ai musicisti l’idea di registrare Respect di Otis Redding, una canzone del 1965 che aveva eseguito spesso nei suoi concerti: di solito quando la canzone viene scritta da un uomo e poi viene data a una cantante, gli unici accorgimenti apportati al testo riguardano i pronomi personali, che vengono necessariamente invertiti, ma nel caso di Respect le modifiche fatte da Aretha furono più sostanziali e profonde.

Per realizzare la cover Aretha si affidò all’aiuto e ai consigli delle sorelle Erma e Carolyn: il lavoro sul testo e sull’arrangiamento ribaltarono completamente la canzone originale, pronta a essere registrata il quattordici febbraio.

Pur mantenendo il tempo e gran parte del testo, tra i cambiamenti effettuati spiccavano un groove molto più orecchiabile rispetto all’originale e un’interazione gospel con il coro di Erma e Carolyn. Inoltre, la sillabazione di Respect e l’inserimento nel testo della famigerata “sock it to me” (che a detta di Aretha non aveva nessuna allusione sessuale) certificarono la completa decostruzione e ricostruzione del brano di Redding, che di fatto passava completamente di mano diventando qualcos’altro.

Nelle corde di Aretha Franklin, infatti, la canzone assunse tutt’altro significato e veniva ribaltata fino a cambiare direzione: se per Redding quel brano avvolto da un fin troppo aspro sapore misogino aveva rappresentato un dignitoso quinto posto in classifica e poco altro, con Aretha Respect diventava il veemente grido di una donna (non solo di una afroamericana) non più disposta a subire le prevaricazioni del mondo.

Non ci misero molto tempo ad accorgersene tutti, poiché Respect e l’album che la conteneva divennero i primi grandi successi di Aretha Franklin, che finalmente poteva affacciarsi alle parti nobili delle classifiche.

Anche Otis Redding rese onore al lavoro compiuto sulla sua canzone, confidando a Wexler che ormai Respect apparteneva più ad Aretha che a lui. E in effetti la canzone abbandonò la sua l’identità originaria per trasformarsi in un inno all’emancipazione femminile, grazie anche alla grinta di Aretha e a quegli scambi con il coro che assomigliavano a un richiamo alla solidarietà tra donne.

In pochissimo tempo Aretha divenne la figura centrale della musica nera e non solo perché ne incarnava tutte le peculiarità: oltre ad avere una voce tecnicamente insuperabile, che sapeva dominare ogni sfumatura e genere senza scomporsi, la nuova regina del soul rivendicava con orgoglio la voglia di cambiamento della sua gente e delle donne.

Questa centralità culturale fu assunta in un periodo storico in cui gli afroamericani spesso lottavano ancora per essere riconosciuti come persone e Martin Luther King (al cui funerale Aretha avrebbe cantato) veniva ucciso: in quest’epoca così turbolenta, l’ascesa di artisti di colore nel Pantheon del pop accelerò ampiamente la questione per i diritti civili, costringendo l’America a specchiarsi nel suo passato e presente razzista.

Se Nina Simone era la risposta rabbiosa al razzismo e Diana Ross era il desiderio di entrare nel salotto buono della musica pop anche a costo di sbiadire le proprie radici, Aretha Franklin puntava invece a convogliare le posizioni di entrambe in un’unica soluzione: lei era la terza via, fatta di consapevolezza della propria storia, senza rinunciare al grande pubblico.   

Quegli artigli da tigre, così affilati, orgogliosi e prorompenti quando cantava, non li avrebbe tirati fuori solo nelle sue canzoni e nei suoi più grandi successi, ma anche nella sua vita privata: nel 1968 si separò da Ted White, mettendosi alle spalle definitivamente un rapporto che l’aveva segnata.

Aretha ci era riuscita: aveva superato le difficoltà di un talento che non sapeva trovare una direzione giusta per affermarsi e aveva portato avanti come donna e afroamericana la sua lotta per rivendicare maggiori diritti e considerazione. E tutto questo merita rispetto.

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