Beirut - Artifacts (2022)

di Valerio Di Marco

L’ultimo album di inediti dei Beirut risale a pochi mesi prima dell’inizio della pandemia e anche il titolo, Gallipoli, richiama in qualche modo quei sapori marittimo/vacanzieri che in questi ultimi due anni ci siamo perlopiù negati. Peraltro, già allora l’afflato del progetto capitanato da Zach Condon virò verso una maggiore cupezza. Che avvertisse la tempesta in arrivo? Ora, dopo due anni di mascherine e lockdown, per la band del Nuovo Messico non è ancora tempo di un nuovo lavoro in studio e allora la stessa formazione ci regala un compendio della sua carriera in parallelo raggranellando in una raccolta composta da un poker di vinili (i cui otto lati in totale sono stati nominati per dare indicazioni sulle tracce contenute) diciassette anni di demo, rarità, inediti e b-side.

Inutile dire che gli amanti dell’indie anni ’00 che si sbrodolavano al seguito dei vari Sufjan Stevens, Patrick Wolf, Bon Iver e Get Well Soon troveranno pane per i loro denti in questa retrospettiva “altra” di una sigla che il genere non l’ha solo interpretato: lo è stato, con il suo songwriting languido, romantico, argutamente pop e mondializzato, ancorché declinato in chiave tradizionale, radicata, local.

Immaginate la sincrasi tra un cantato ora lamentoso ed ermetico à la Thom Yorke e ora melodicamente attorcigliato e armonioso à la Morrissey, e una base strumentale dai forti accenti folcloristici e riflessi talvolta messicaneggianti ma più spesso gitani/balcanici e in genere adriatico/mediterranei. Bizantinismi, ortodossie affatto “ortodosse”, o magari orto-dossi, col trattino in mezzo a separare i due termini da intendersi il primo come coltivazione di stili e influenze, il secondo come serie di saliscendi emozionali, entrambe cose a cui Condon ci ha sempre abituati. Anche questi Artefatti hanno la dignità di lavoro a sé stante. Non antefatti, quindi, non spiegano le origini di una discografia invidiabile per qualità media; ma vera e propria versione alternativa di quella stessa discografia, perché se la verità in ogni caso fa sempre il suo corso, le verità possono essere tante e insieme concorrere alla definizione del quadro d’insieme.

Probabilmente, molti – tra cui chi scrive – non conoscono nei minimi dettagli neanche l’intera discografia “madre” dei Nostri per cui, come sempre, un’antologia di questo tipo va presa con le molle e l’unico motivo di interesse è rintracciarvi qualche possibile perla. Il punto quindi è: quali sono le perle in questo tomo di 26 brani? Sicuramente l’opening Elephant Gun, peraltro stranota ai cultori beirutiani essendo la title-track dell’EP dallo stesso titolo uscito nel 2007; ma anche il singolo di lancio Fisher Island Sound, inedito passaggio arioso e bucolico per chitarra, chitarrina, piano, percussioni, fisarmonica a bottoni e tromba a ricordare da vicino le serenate per il Sud del mondo che Condon approntò nell’ottimo The Rip Tide (2011), oppure un bandistico divertissement patriarcal/meridionalista da processione paesana come My Family’s Role In The World Revolution (inclusa a suo tempo nella versione bonus dell’album di debutto The Gulag Orkestar). Senza tralasciare il piglio synth dagli echi 80s di una Poisoning Claude, lo space-folk di una Bercy, il registro celticheggiante e melodrammaticamente epico di una Napoleon On The Bellerophon, nonché gli aromi agresti di una Transatlantique e quelli calipso di una So Slowly.

Artifacts offre una versione alternativa, spiega poco se preso da solo, ma fornisce un’ottica, e come tutte le ottiche sostenute da argomenti validi anche questa può aiutare a completare il grandangolo ed essere tenuta lì, a futura memoria.

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