B. B. King: il figlio dei campi che divenne re del Blues

di Luca Divelti

Quando nasci in una piantagione di cotone del Mississippi, cresci senza padre e madre e sopporti il pesante fardello di un’esistenza di sacrifici e segregazione, non puoi non cercare una via di fuga.

Riley B. King, come tanti altri afroamericani nella sua condizione, desiderava qualcosa di meglio per sé, che non dovesse per forza sfiorare continuamente le storie di schiavitù raccontategli dalla nonna: aveva imparato fin da piccolo che a quelli come lui il Sogno Americano di solito riservava solo la feroce e schiacciante indigenza dei campi del sud, condita con la crudeltà dei bianchi sempre pronti a linciare e impiccare per uno sguardo sbagliato.

Ma come poteva sfuggire a una vita da mezzadro? Forse poteva rifugiarsi nella musica e magari trovare qualche soldo per evadere dalla vita dei campi. La musica lo aveva sempre affascinato e attratto, portandolo da bambino a cantare nel coro gospel della chiesa di Indianola e in seguito a imparare i primi accordi di chitarra grazie allo zio predicatore.

Riley decise a dodici anni che era il momento giusto di buttarsi: ottenuto dal proprietario della piantagione un sanguinoso prestito di quindici dollari per acquistare la sua prima chitarra, iniziò a dividersi tra la coltivazione del cotone e suonare per le strade dei paesi del Delta del Mississippi.

Man mano che le offerte gettategli nel cappello dai passanti si intensificavano di numero e valore, aumentava nel ragazzo il desiderio di lasciare tutto e abbracciare definitivamente la vita on the road: nel 1946, a ventuno anni, partì per Memphis salutando per sempre la piantagione e la fatica dei campi.

Memphis era da tempo la destinazione ideale per gli afroamericani che volevano mettersi alle spalle nel sud degli Stati Uniti la segregazione e i linciaggi: città cosmopolita e in pieno fermento commerciale, era il centro nevralgico culturale ed economico del Tennessee, dove Riley incontrò una realtà assai diversa da quella conosciuta, con possibilità che neanche poteva immaginare nella vicina Indianola.

La città infatti era celebre anche per i locali di Beale Street, dove da decenni i musicisti si raccoglievano lungo quella che per tutti era la “strada della musica” e mescolando jazz, gospel e blues (di cui Memphis era la capitale riconosciuta) davano vita a nuovi stili e influenze.

Lungo le strade di Beale Street Riley iniziò a suonare e a fare il dj per la WDIA, la prima emittente radiofonica statunitense dedicata interamente alla musica nera e condotta esclusivamente da afroamericani.

Durante i suoi programmi alla WDIA Riley si presentava come the Blues Boy from Beale Street, ma per ovvi motivi di brevità i fan iniziarono a chiamarlo dapprima semplicemente Blues Boy, per poi ulteriormente accorciare il tutto in “BB”: nasceva così B.B. King.

In pochi anni il giovane musicista si fece strada, soprattutto per quel suo peculiare modo di suonare: non riuscendo a usare i colli di bottiglia e lo slide come gli altri chitarristi a causa di dita troppo larghe, B.B. King s’inventò uno stile tutto suo, pizzicando e incrociando le corde sulla tastiera del suo strumento.

L’effetto ottenuto, una sorta di vibrato simile a quello dei violinisti, divenne il suo marchio di fabbrica e lo aiutò a catturare l’attenzione nel 1951 di Sam Phillips e della sua Sun Records, famosa anche per aver scoperto e lanciato successivamente altri giovani artisti come Elvis Presley, Johnny Cash, Jerry Lee Lewis, Roy Orbison e Carl Perkins.

In quegli anni dormiva letteralmente con la sua Gibson L-30, da cui non si separava mai, anche perché la chitarra era la sua unica fonte di sostentamento: questo attaccamento era stato rafforzato da una terrificante notte del 1949, quando il bluesman rischiò davvero di perderla.

Durante un concerto in Arkansas, a causa di due uomini che si misero a litigare e poi vennero alle mani, una stufa di cherosene prese fuoco: King, preso dal panico mentre l’incendio montava, cercò dapprima la via di fuga come tutti i presenti, ma resosi conto di aver dimenticato la preziosa Gibson, tornò sui suoi passi e si lanciò di nuovo nel fuoco.

Il giorno successivo, con un bilancio di due morti e angoscianti domande su come ne fosse uscito incolume, King venne a sapere che la disputa tra i due facinorosi era dovuta a una donna: il bluesman decise così di chiamare la propria chitarra (e tutte quelle che vennero dopo) Lucille, in onore della ragazza contesa, per ricordarsi di non ripetere mai più un simile azzardo.

Il suo primo disco scalò facilmente le classifiche R&B: Three o’ clock blues certificò l’interesse verso il suo stile saturo di sovrapposizioni di scale minori e maggiori, che aumentavano la gamma delle sfumature sonore prodotte dalla sua Lucille.

Dopo il debutto discografico B.B. King plasmò anche il suo personaggio: dismessi i tipici jeans dei bluesmen, iniziò a indossare impeccabili completi a tre pezzi, sullo stile di altri artisti di colore come Count Basie e Duke Ellington. Quello che poteva sembrare un innocuo cambio di immagine gli causò però non poche critiche e attacchi dai suoi colleghi, che giudicarono la scelta come un tentativo di venire a patti con il pubblico bianco.

Negli anni cinquanta, infatti, il movimento per i diritti civili cominciò a scuotere le coscienze degli statunitensi e gli afroamericani iniziarono a pretendere un allentamento della segregazione e una differente considerazione sociale: in quel periodo, gli artisti che come King preferivano tenere un profilo basso o semplicemente evitare di esporsi non erano pochi, ben consapevoli di lavorare in un’industria in mano ai bianchi e costruita sulle loro regole.

La musica nera stava intanto diventando sempre più appetibile per le case discografiche: le grandi affermazioni di artisti come Fats Domino, Chuck Berry e Little Richard fecero concentrare gli scout sull’ossessiva ricerca di nuovi talenti da lanciare nelle sempre più affollate classifiche pop.

B.B. King rimase in disparte e osservò da lontano il grande fermento che interessò molti suoi colleghi, dedicandosi soprattutto all’attività dal vivo nei club e teatri: nei primi anni sessanta la sua fama faticava a oltrepassare il confine degli amanti del blues e comunque a lui sembrava non importare più di tanto, ritenendosi soddisfatto della sua vita di musicista di nicchia.

Poi, a metà degli anni sessanta, improvvisamente l’America si ritrovò invasa da delle truppe inglesi che imbracciavano chitarre e si dichiaravano adepte di quella tanto osteggiata musica nera: la British Invasion dei Rolling Stones e Beatles catalizzò l’attenzione e mutò lo scenario musicale statunitense, destabilizzandolo.

Infatti, per la prima volta da decenni la musica popolare non passava dagli Stati Uniti, che subirono l’incredibile ascesa del beat inglese e dei suoi gruppi, formati per lo più da giovani della working class appassionati di blues, costringendo i giovani bianchi americani ad aprire l’immenso scrigno della musica nera.

B.B. King si trovò di colpo coperto di attenzioni mai avute, anche grazie all’affermazione di blues band di soli bianchi come la Paul Butterfield Blues Band, in cui suonava il virtuoso Mike Bloomfield, che non nascondeva di rifarsi proprio al nativo di Indianola: da quel momento gli si aprirono le porte del grande pubblico e delle grandi arene, diventando di fatto (e non solo di nome) the King of blues.

I suoi album si susseguirono e di pari passo crebbe la considerazione delle classifiche, fino al successo del 1969 di The Thrill is gone, uno standard blues vecchio di qualche decennio: la canzone, registrata in più take e senza particolari slanci da parte di King, non sembrava inizialmente destinata alla fama successiva.

Fu il produttore Bill Szymczyk a imporre l’aggiunta degli archi e a cambiare il destino del brano, svegliando il chitarrista poco prima dell’alba per convincerlo a modificare l’arrangiamento: l’assenso di King, disposto a qualsiasi cosa pur di tornare a dormire, gli permise finalmente di toccare le vette delle classifiche pop.

L’affermazione di The Thrill is gone consentì al bluesman di assurgere di fatto e non solo di nome a quel ruolo aristocratico che gli spettava di diritto: dopo tanti anni in sala d’attesa, sia B.B. King che il blues entravano finalmente nell’élite della musica americana. 

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