The Avett Brothers - The Avett Brothers (2024)

di Fabio Cerbone

Ripartire da un disco omonimo, persino cifrato nell’enigmatica scritta di copertina (...nient’altro che il nome della band “tradotto” in numeri romani) spesso è il tentativo di tirare una riga sul passato, di scovare nuove energie e significati per una carriera che si è spinta oltre, trovando l'approvazione da parte del grande pubblico (persino un musical di successo, Swept Away, basato sulle loro canzoni) e cercando al tempos stesso vie alternative per non restare imbrigiliati in una formula. Ci auguravamo un miracolo in occasione del precedente, spento e confuso, Closer than Together, che peraltro seguiva un altrettanto pasticciato True Sadness, e la reazione in parte è arrivata dagli Avett Brothers, la band dei fratelli Seth e Scott dalla North Carolina, partiti come una sensibile orchestrina folk/bluegrass e diventati negli anni un intreccio di ambizioni pop e radici americana.

The Avett Brothers è una parziale “ammissione di colpa”, un inseguire il tempo perduto e un compromesso tra passato, presente e futuro della band, tutto in un colpo solo, con inevitabili alti e bassi, ma senz’altro con meno cadute di stile e più concentrazione su suoni e soprattutto canzoni, quelle che avevano fatto la differenza ai tempi di Emotionalism e The Carpenter, ovvero sia i loro gioielli musicali ancora oggi da luicidare in bacheca. C’è sempre il fedele Rick Rubin ad affiancare il quartetto (completato ufficialmente da Bob Crawford e Joe Kwon, con il batterista Mike Marsh membro aggiunto dal vivo), che ha visionato la produzione tra i suoi studi californiani di Malibu, quelli di Nashville e quelli casalinghi degli stessi Avett brothers a Concord, NC, dando l’impressione di voler sfrondare un poco il suono per allinearsi all’anima semplice e spirituale di queste nove tracce che attraversano diverse emozioni e domande sull’esistenza.

Il suddetto “miracolo” non si avvera, ma perlomeno Never Apart (e il suo straniante preludio vocale) mette a proprio agio gli affezionati sostenitori della band: riemerge l’estatica grazia folk e non si perde la pastosità pop delle armonie, sebbene la successiva Love of a Girl rischi di rovinare la festa con la sua vaporosità pop-punk un po' fuori contesto. Meglio dunque sperimentare qualche fragranza psichedelica fra gli echi distanti di Cheap Coffee, il brano più avventuroso (e forse anche il migliore) della raccolta, oppure rincorrere la dolciastra melodia di Forever Now, imprigionata in una vaga nostalgia sixties, accostabile per semplicità d’approccio alla pianistica e lineare 2020 Regret o ancora alla chiusura intima, tutta carezze acustiche, di We Are Loved.

Seguono un copione dimesso e rassicurante, di tanto in tanto attingendo anche ai ricordi rurali da cui provengono gli Avett Brothers, nei loro inizi roots richiamati con Country Kid e nelle tinte rock/americana, quasi da band texana, di Orion’s Belt. Episodi in verità un po’ troppo prevedibili, che musicalmente tentano di fare sintesi su quanto affrontato dal gruppo nei suoi vent’anni abbondanti di storia, riscoprendo una certa gioia domestica e una naturalezza folkie che stava alla base della loro storia: non basta a farne un disco indispensabile, ma abbiamo se non altro ritrovato dei musicisti più in pace con se stessi.

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