Brown Horse - Reservoir (2024)
di Gianfranco Marmoro
Situata a 160 km da Londra, Norwich è una cittadina della contea del Norfolk, una delle più importanti del Regno Unito sia per densità di popolazione, per molto tempo seconda alla sola capitale, sia per essere stata designata dall’Unesco come Città della Letteratura. Norwich è anche la sede del collettivo country-rock dei Brown Horse, band alle prese con il primo album per la Loose Music.
Pur restando un esordio, “Reservoir” è il risultato di ben sei anni di crescita artistica e di avvicendamenti all’interno della formazione inglese, ora consolidata con ben sei elementi. Per i Brown Horse è l’occasione per una decisa messa a punto di uno stile dove suggestioni musicali, letterarie e culturali vanno di pari passo. Nati come quartetto folk nel 2018 – Emma Tovell, Nyle Holihan, Patrick Turner e Rowan Braham – i Brown Horse hanno cambiato decisamente passo con l’ingresso del batterista Ben Auld e della cantautrice Phoebe Troup, spostando l’asse verso un alternative country alla Wilco/Uncle Tupelo, con evidenti richiami alla tradizione di The Band, Neil Young e Flying Burrito Brothers.
I Brown Horse dichiarano senza timore alcuno tutto il loro amore per vecchie storie di cowboy, di cavalli, di amanti traditi e beautiful loser, ed è naturale che lo spettro degli anni 60 e 70 faccia capolino dietro la malinconica e notturna ballata per piano e chitarre elettriche di “Everlasting”, che non sfigurerebbe in un album come “Times Fades Away” di Neil Young, i cui fedeli Crazy Horse affiorano spesso nel gradevole citazionismo della band inglese: in tal guisa, un brano come “Bloodstain” spazza via tutta la “ruggine” regalando un inatteso bagliore al taglio più dolente del disco.
Trasuda onestà e rispetto, la musica dei Brown Horse. Non è un caso che Patrick Turner affidi a “Stealing Horses” le prime note del disco, una ballata country-rock dove strati di chitarre elettriche, basso e batteria intercettano fisarmonica, banjo e slide guitar facendo da sfondo a un simbolico raccordo tra passato e presente: “Ti ho sentito alla radio ieri a tarda sera cantare una vecchia canzone di Jimmie Rodgers, puoi lasciare la tua sella qui, ma è ancora il mio cavallo quello che dovrai cavalcare".
Sono tante le emozioni che regala “Reservoir”, ma non sono mai sfacciate, spesso meste e sofferte al punto da apparire frustranti - il canto strozzato e dolente di “Resevoir” - a volte inebriate da un algido mood soul che il graffio di un assolo di chitarra prova a far deflagrare regalando una delle canzoni più belle del lotto, “Shoot Back”.
Sono bastati quattro giorni di registrazione al produttore Owen Turner per mettere a punto l’album, ed è sorprendente la potente coesione d’insieme di “Reservoir”, nonostante siano ben quattro i musicisti coinvolti come autori. Anche quando la band indugia in una tenera e poetica celebrazione di Paul Gilley - oscuro cantautore morto annegato a soli 27 anni e riconosciuto come autore del testo di “I’m So Lonesome I Could Cry” - o quando allenta la tensione nel prevedibile accorato finale di “Called Away”, è percepibile un alito vitale che scuote l’anima più di un grido o di uno schiaffo.
Densa, colta e struggente, l’opera dei Brown Horse è la prima sorpresa dell’anno. Un disco che trasuda un’intensità espressiva e un’urgenza emotiva che a volte tolgono il fiato, come quando violino e chitarra duellano nella travolgente “Sunfisher” o quando la band va a briglie sciolte e regala un'energica e liberatoria “Silver Bullet”. L’agrodolce malinconia dei Brown Horse è ben sottolineata anche dal cantato a metà strada tra un giovane Bob Dylan e Tracy Chapman di Patrick Turner e dal controcanto di Phoebe Troup, la musica è densa, polverosa e granitica, quasi greve, ed è difficile non pensare, con le dovute differenze, ai Cowboy Junkies di “The Trinity Sessions”, soprattutto quando la fisarmonica prende il comando emotivo di “Outtakes” o quando banjo, fisarmonica e lap steel abbassano la tensione per un commiato che sa di speranza e promessa (la già citata “Called Away”).
Ai Brown Horse va dato atto di aver catturato aspettative e disinganni del sogno americano, di averne colto la fragilità, l’inquietudine e l’amarezza, trasformandole in poetiche visioni sonore che hanno un senso anche oggi che il sogno americano è più simile a un incubo, “Reservoir” è un disco che si candida già da ora come uno dei migliori album di musica alt-country dell'anno, poco importa che a raccontare questa storia siano sei ragazzi di Norwich, Inghilterra.
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