Clarissa Connelly - World Of Work (2024)
di Stefano Solventi
L’ingresso nel roster Warp coincide con una specie di nuovo esordio per Clarissa Connelly, scozzese di nascita e danese di adozione, un primo album nel 2018 (il mini Tech Duinn) seguito due anni più tardi dall’apprezzato The Voyager. Connelly è polistrumentista, compositrice, produttrice, persino ideatrice di una app (Vandringen) che interagisce a livello sonoro con specifici siti pre-cristiani scandinavi. Insomma, non proprio quella che si dice una persona semplice, anzi. Anche dal punto di vista musicale, sembra impegnata a rendersi inafferrabile accumulando sfaccettature, sia per quanto riguarda i temi attorno a cui girano le sue canzoni (poesia, filosofia contemporanea, grimori medievali, misticismo…), sia per le connotazioni stilistiche. Una complessità d’impatto e in ragione di ciò difficilmente profilabile, perché vibratile e stratificata, al tempo stesso istrionica e spettrale.
World Of Work mette in fila dieci pezzi visionari, nei quali non è facile distinguere la linea di confine tra la tempra arty e il folk bucolico. Ovvero: le radici affondano spesso e volentieri tra gli spiriti inquieti e il senso d’altrove di stampo Vashti Bunyan, ma questo canovaccio appare come processato e ristrutturato da uno sguardo teatrale Kate Bush, mentre tra centro e margini affiora un lirismo sia cerebrale che ventrale al confine tra Fiona Apple e Tori Amos, lasciando oltretutto trapelare tremori celtici rabbiosi non troppo lontani dalla Sinead O’Connor più stregata che stregonesca.
Affrontando senza riguardo temi alti e profondi come desiderio, estasi, ecatombe ambientale, alienazione (cita il Bataille che stigmatizza il lavoro perché ci rende “ignoranti della nostra stessa natura”), perdita dell’innocenza (qui chiama in causa William Blake) e via discorrendo, Connelly riesce a non foderarsi di supponenza o pedanteria, ma anzi appare come la prima beneficiaria di un tuffo nella vertigine della ricerca di senso, della riscoperta di un sé autentico e profondo in un tempo che codifica il sé sul guscio di un ego sempre più ingegneristico.
In altre parole, azzecca alcune canzoni davvero memorabili, su tutte a mio avviso l’ardimentosa Life of The Forbidden, la tremante Wee Rosebud e Into This, Called Loneliness col suo impeto elusivo e sofisticato. Ma è l’album nel suo insieme a costituire un “luogo” espressivo ben definito, caratterizzato e coinvolgente. Una alterità. Un’anomalia in grado forse di scuotere convenzioni e convinzioni dall’interno. Con la maliosa, strisciante assertività di certi misteri.
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