Francesco Guccini. Come non scoppiò la Seconda Guerra Avvelenata (compreso lieto fine)

Omaggio di Riccardo Bertoncelli a Francesco Guccini e a “Se io avessi previsto tutto questo – Gli amici, la strada, le canzoni”

di Riccardo Bertoncelli 

La storia dell’Avvelenata la conoscono tutti e io stesso l’ho raccontata più volte, con dovizia di particolari – quindi salto il giro. Forse non tutti invece sanno che rischiò di arrivarmi tra capo e collo una seconda freccia al curaro sempre scagliata dalla cerbottana del Guccini, allora appostato nella boscaglia di via Paolo Fabbri, quartiere Libia, Bologna. Per fortuna la schivai e anni dopo ebbi la soddisfazione di veder riconosciute le mie ragioni, come ora in breve dirò.

Fatemi cominciare dalla fine. È un freddo giorno del dicembre 2012, Francesco Guccini presenta alla stampa il suo disco finale, L’ultima Thule, e annuncia il ritiro dalle scene. Per farlo, ha scelto un incredibile posto degno di un “dizionario delle case perdute”, nel cuore di Milano, a due passi da Porta Venezia. Siamo sotto Natale, corso Buenos Aires splende di luminarie natalizie e pare la sorellina della Quinta Strada di New York. Ma voi svoltate l’angolo e infilatevi nel portone all’indirizzo scritto sull’invito, verso un circolo ARCI che nessuno potrebbe immaginare lì. Tutto cambia rapidamente. Appena entrati, odore di risotti e ossobuco, mentre su vecchi tavoli da bar di periferia si accapigliano pensionati intenti a giocare a carte. Spunta un calcio balilla, dev’esserci anche un biliardo, noi comunque tiriamo dritto e scendiamo un’angusta scala che porta a un ampio locale. Non facciamo in tempo a domandarci cos’è che si staglia una luccicante mirror ball e si palesa una sala da ballo di quelle che Celentano frequentava da ragazzo, grazie prego scusi. C’è un orologio ma in realtà ci servirebbe un calendario. Che anno è? E, soprattutto, a che ora suonano Peppino Di Capri e i Rockers? Invece non c’è Peppino, c’è Francesco, che siede in un angolo, si schiarisce la voce e comincia così (vado a memoria): “Come sa bene Riccardo, perché ce lo siam detti tanti anni fa, uno non può mica fare il cantautore fino a tarda età. Viene il momento che si passa a far altro”. Mugugni generali di assenso mentre a me cade la mascella. Ah, “come ci siam detti anni fa”… Ah! Ma non ero stato accusato di diffondere notizie false maliziose tendenziose? E ora parola turna ndré, come non dicono a Pavana, riabilitato addirittura con citazione diretta?

Flashback. È l’ottobre 1989. Francesco ha appena scritto Cronache epafaniche e io ne parlo tra il serio e il faceto su Cuore, quando ancora era un supplemento dell’Unità del lunedì. “Francesco Guccini ha scritto un libro che mi guarderò bene dal recensire. sSe mai ne avessi avuto intenzione, un’intervista recente mi ha fatto passare la voglia. ‘Son proprio curioso di leggere cosa ne scriverà la critica paludata’, diceva l’Avvelenato, e dietro le compite parole mi sembrava di vederlo, con la bava alla bocca e la penna pronta (pardon, il mouse) a immortalare chi avesse osato. Va bene che non appartengo alla critica paludata (né a quella paludosa, peraltro) ma non si sa mai. No, grazie, abbiamo già dato.

“Preferisco stare al di qua della critica e chiedermi piuttosto perché. Perché uno stimato Professionista, quindici LP all’attivo, buona posizione in classifica, centomila copie per album mette in gioco la sua immagine? Perché un agiato possidente con immobili a Bologna, via Paolo Fabbri, a Pavana (mappa catastale 4N) perde il suo tempo per un pugno di royalties? Mi sono lambiccato il cervello ma non sono giunto a risultati soddisfacenti. Poi mi sono ricordato di una sera, una sera di tanti anni fa passata con il Guccini (dove, se non in osteria?) a convincerlo a pubblicare certi scritti che aveva nel cassetto. Anziché snobbarmi dall’alto della sua fama o trattarmi come un seccatore, l’ancor giovine F.G. mi aveva dato retta e alla fine aveva sentenziato, meditabondo: “Potrebbe essere un’idea per quando sarò vecchio. Devo pur badare alla pensione; mica posso continuare a fare il cantautore fino a sessant’anni.”

“Diavolo d’un Guccini! Due parole e mi aveva spalancato un orizzonte sconosciuto, un mondo da brividi. Eh già, anche i cantautori sono fiorellini che vanno ad appassire, futuri nonnetti destinati alle rughe, alle crepe, agli stenti: come non averci pensato prima? E mi immaginavo con raccapriccio Lucio Dalla suonare il clarino per le vie di Bologna, un cupo Natale del 2000; e il Guccini medesimo ridotto a cibarsi di bacche e gramigne d’Appennino dopo aver dato fondo ai risparmi, alle bottiglie più remote della cantina, perfino alla collezione integrale di Paperino in americano.

“Ecco, forse questo ricordo spiega tutto. Da buon latinista montanaro, Guccini sa che ‘disca volant, scripta manent‘ e per garantirsi appunto qualcosa che ‘manent’ si è assicurato con la Feltrinelli, usandola come un Fondo Pensioni. Brillante idea che peraltro, dal mio punto di vista, capovolgerei volentieri. Io ci provo: cedesi avviata attività giornalistica in cambio di contatto con multinazionale discografica, ingaggio pronta cassa, primo LP pronto per Sanremo.” (da Cuore, 2 ottobre 1989)

Ora, mi sembra chiaro che era tutto uno scherzo, anche se a dire il vero feci leggere la bozza a mio fratello che mi sorprese dicendo: “Ce l’hai proprio con Guccini…” Ma io volevo giocare, mica graffiare, possibile che non si capisse? Mi era piaciuta quest’idea dei “signori della canzone” ridotti a stracci e caldarroste e ci avevo ricamato un po’ su, partendo da un aneddoto vero: perché, Guccini se l’era dimenticato ma io no, quella cena in trattoria c’era stata davvero, alla fine dei ’70, combinata dall’allora direttore editoriale della Mazzotta, Andrea Rivas, che aveva intuito in anticipo la strada dei “cantautori scrittori” e voleva saggiare il terreno. Entrando in argomento era venuta fuori quella frase (“mica farò il cantautore fino a sessant’anni”) che a tradimento avevo rispolverato dieci anni dopo, usandola come grimaldello per i miei scassi. Sia chiaro, niente di cui vergognarsi: credo che nessuno fra i cantautori-leader di quegli anni pensasse di durare nel tempo, e mica solo i cantautori. Pete Townshend lo sfottono ancora adesso per aver scritto in gioventù “spero di morire prima di diventare vecchio”. Ha più di settant’anni, quel fottuto bugiardo, e non solo gli piace essere in buona salute ma proprio non è contemplata l’idea di scendere dal palco.

Guccini però se la prese. E la situazione peggiorò all’annuale raduno del Club Tenco, di lì a poco, quando Roberto Vecchioni lo prese perfidamente in giro interpretando in scena una sua canzone “molto attuale, visto un recente articolo”: Il pensionato. Da Sanremo mi giunsero notizie bellicose e per un attimo temetti un “Ritorno del figlio dell’Avvelenata part 2 – La vendetta”, che sinceramente anche le mie spalle Miketysoniane non so se avrebbero sopportato. Cercai disperatamente Francesco prima che accadesse l’irreparabile e per fortuna lo trovai un po’ sulle sue ma non così incazzato. Argomentai, spiegai, ricordai – e, porco Giuda, possibile che tu sia così allergico alla mia penna e che ti vengan fuori i puntini rossi al secondo aggettivo?

Non tornammo più sull’argomento, fino al matiné del Garden Blu che dicevo prima – “ricchi premi e cotillon, fascia d’oro per la miss”. “Come sa bene Riccardo, perché ce lo siam detti tanti anni fa, uno non può mica fare il cantautore fino a tarda età. Viene il momento che si passa a far altro”. Eh, già. Cosa faccio?, pensai il nanosecondo dopo. Lo strozzo o gli rigo la Volvo? Poi mi venne in mente che Francesco non ha mai avuto un’auto e mi scappò da ridere. No, no, tutto è bene quel che finisce bene. Anche perché, lo so che voi diffidentoni non ci credete, ma io a Francesco Guccini voglio un gran bene e non smetterò mai di volergliene.

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