Norah Jones - Visions (2024)

 di Andrea Campana

Pubblicato a quattro anni di distanza dal precedente “Pick Me Up Off The Floor” del 2020 – se non si conta l’album natalizio “I Dream Of Christmas” del 2021 – “Visions” è il nono lavoro in studio di Norah Jones e arriva a più di vent’anni di distanza da quello storico “Come Away With Me” (2002) che rimane un blueprint per il soft-jazz canoro delle ultime due generazioni. Cresciuta con la musica in famiglia, figlia d’arte di Ravi Shankar, in un ventennio e più la Jones si è distinta con produzioni delicate e raffinate ma anche occasionalmente audaci ed eclettiche, come con il memorabile “Little Broken Hearts” (2012), prodotto in collaborazione con Danger Mouse, che ha marcato un deciso allontanamento dal jazz. Per non parlare dell’avventura durata un album di “Foreverly” (2013), incentrata su cover di brani tradizionali realizzati in stile folk nientemeno che con Billie Joe Armstrong dei Green Day. Insomma, in tanti anni Norah Jones ha saputo spaziare tra le note, anche se la sua casa rimane quel pop jazz dal sapore leggero e ispirato, ed è là che, in qualche modo, ritorna sempre.

Ancora una volta, la magia scaturisce dal binomio tra il piano e la voce della cantante fin dall’inizio di un album costruito con una sicurezza e una maturità musicale ormai innegabili, con il contributo del produttore e polistrumentista Leon Michels. Già la traccia d’apertura, “All This Time”, annuncia la riscoperta di suoni celestiali, aperti e semplici, colmi di un sentore naturale e leggiadro, veleggiando su una melodia astratta. Ma è il secondo brano, “Staring At The Wall”, a settare il tono complessivo della raccolta, conservando l’eleganza ma incrementando il ritmo, attraverso un deciso accompagnamento di chitarra, ovattato ma audace, in un mood alla Carole King fortemente nostalgico; l’arrangiamento è “invecchiato” a bella posta risultando, in un wall of sound folk piacevolmente sporco, qualcosa che potrebbe essere stato ideato da Jack Antonoff o che si potrebbe trovare in un disco dei Big Thief. “Paradise”, invece, vira verso una filastrocca pianistica dai connotati perlacei e dalle misurate armonie vocali.

“Queen Of The Sea” è una ballad marinaresca che, complice il lento tempo shuffle, sembra davvero fischiettata in riva al mare, con una parte strumentale su cui si innesta un gioco di voci spettacolare: la stessa Jones canta magnificamente su sé stessa, allestendo un clima vintage che sfocia in un’elegante coda da banda musicale in fiera. Più intima la title track, con un arrangiamento essenziale, in cui la chitarra incede su un semplice riff doppiato da un sottile fiato smorzato, mentre la voce della cantante si fa il controcanto in ottava (sopra).

Piazzata a metà disco, “Running”, scelta non a caso come singolo, è decisamente più accessibile della media della tracklist e trascina l’ascolto con una melodia orecchiabile, seppur delicata, e per la prima volta con un certo accento cupo e introverso, ricordando da lontano il già citato Danger Mouse e i suoi Broken Bells.

In altri episodi, invece, "Visions" non riesce a graffiare: a “I Just Wanna Dance” non bastano le doti canore della Jones per risultare efficace; “I’m Awake” si limita a svolgere il compitino senza grandi inventiva, salvo un certo tratteggio nebbioso nelle divagazioni sonore che contornano il fulcro del brano; “Swept Up In The Night” tenta di imbastire un’atmosfera notturna da film ma senza mordente; “On My Way” suona ballabile ma anche effimera e priva di ambizioni.

Meglio, semmai, quando Norah Jones approfondisce il suo lato più riflessivo, come in “Alone With My Thoughts” - brano esplicativo fin dal titolo, il più lento e intenso del disco - e nella conclusiva “That’s Life”, che sembra provenire da un vecchio locale d’altri tempi di un film in bianco e nero di decadi fa, a serata inoltrata e davanti a pochi distratti spettatori sonnolenti: una chiusura vivida e di classe.

Più soul che jazz, più folk che pop, “Visions” ricorda a tratti l’Otis Redding di “(Sitting On) The Dock Of The Bay”, le prime produzioni leggere di Carole King, i tratti fantasiosi di James Taylor o Yusuf Islam, l’eterea ricercatezza di Joni Mitchell. Un disco che piacerà agli appassionati di suoni d’altri tempi, ma anche a chi semplicemente ricerca suoni tenui e ricchi di sfumature. Il miglior album della carriera di Norah Jones? Forse no, ma di certo è un altro tassello prezioso nel suo raffinato mosaico sonoro.

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Commenti

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