In ricordo di George Martin: lo Zio Scarafaggio
di Riccardo Bertoncelli
Se Brian Epstein fu “il papà” dei Beatles, per usare il termine affettuoso coniato dagli stessi figlioli, Martin è stato lo zio saggio e complice; chiamato da subito a consigliare, a controllare, fondamentale trait d’union fra il mondo a colori di quei geniali scapestrati e il bianco-e-grigio dei burocrati delle Industrie Elettriche Musicali. Produttore scrupoloso e arrangiatore di talento (basterebbe il ricordo famoso di Yesterday o di Eleanor Rigby), stimolato dai suoi pupilli a vere e proprie missions impossible; come la famosa volta che John gli chiese di suturare due versioni di Strawberry Fields Forever non solo diverse ma proprio con un altro tempo e lui eseguì, con forbici, pecetta e dito sul nastro, consegnando quel brano alla storia – le necessità pre-tecnologiche aguzzavano l’ingegno.
Martin era già qualcuno quando i Beatles arrivarono, nel 1962, anche se non c’è dubbio che senza di loro oggi non saremmo qui a scriverne. Era entrato alla EMI nel 1950 e per anni aveva fatto il jolly, come si usava in quei beati tempi discografici, scovando talenti e lavorandoseli poi in studio, quasi da solo, con gli autarchici mezzi che i suoi ricchi e avari padroni gli concedevano. Alla faccia delle specializzazioni, aveva fatto tre volte il periplo dei generi musicali, passando con disinvoltura dal jazz allo skiffle, dal melodico britannico al cabaret. La sua specialità erano certi dischi umoristici in cui si sopperiva alle inevitabili carenze musicali con trovate sonore a effetto. Ne inventò alcune irresistibili per Peter Sellers, quando non era ancora la Pantera Rosa ma uno dei Goons, e questo gli guadagnò la stima incondizionata dei Beatles, che erano appassionati cotti di quel grande; ma anche Martin ne trasse giovamento, se è lecito scorgere in quei primi ingenui effetti la radice di tanti giochini sonori che avrebbero poi costellato il cielo dei Favolosi, specie negli ultimi anni. C’è un album del 1960 che è un culto per gli amanti del genere (Songs For Swinging Sellers, il titolo fa il verso a un celebre Sinatra); e fra le altre cose un duetto di Sellers con Sofia Loren (Bangers And Mash) che segnalo senz’altro a Vincenzo Mollica, per completare la sua collezione di figurine cinemusicali.
Quando scoccarono i Beatles, Martin era il capo della Parlophone e da quella postazione guidò una storica rivolta. Non portava la chioma lunga, anzi, sfoggiava una precoce calvizie, ma se cercate un Grande Vecchio dei capelloni di Liverpool, eccolo: fu lui a produrre non solo i Beatles ma anche Gerry & The Pacemakers, Billy J. Kramer & The Dakotas e l’uccellino Cilla Black, insomma, il fior fiore di quello che veniva chiamato “Mersey Beat”. Non era proprio la sua musica ma comunque ci si appassionava, e cercava di dargli garbo ed eleganza. Il suo massimo divertimento era prendere quelle rumorose canzoni yé-yé e distillarne un succhettino orchestrale frizzante e analcolico, mettendone in risalto le buone qualità armoniche. Incise vari album di quei “Beatles per orchestra”, oggi sfortunatamente fuori catalogo; e se vi capita di riguardare i due film classici di Richard Lester con gli Scarafaggi, Help! e A Hard Day’s Night, troverete anche lì tracce di beat addomesticato per orchestra, uno dei tanti modi per divulgare i Beatles oltre la cerchia dei capelloni e proporli a mamma & papà.
Non era proprio la sua musica, abbiamo detto, ma poi andò anche peggio. Il rock si complicò e isterizzò, le “buone maniere” svaporarono e dopo i Beatles Martin diede l’impressione di non divertirsi più tanto. Continuò a lavorare, comunque, e sempre ai grandi livelli che gli competevano. Ogni tanto lo chiamava il suo vecchio scolaro McCartney per qualche album “solo”; oppure tornava agli amori jazz (con McLaughlin per esempio) o ficcava il naso in qualcosa di strano (il Jeff Beck di Blow By Blow), quando non cercava echi dei Beatles in qualche complessino beneducato ma giusto quello (gli America). Un nobile sopravvissuto di un’epoca d’oro, con un suo inimitabile stile.
Nel 1996 la Regina lo fece “knight bachelor”, anche più di quei ragazzi con gli stivaletti a punta che si ritrovò in ufficio un giorno del ‘62 e accettò di produrre anche perché nessuno alla EMI voleva farlo. Ma non c’era bisogno di quell’onorificenza per capire che Martin era un gentiluomo. Basti ricordare che per tutti gli anni della Beatlemania, fino al 1967, lavorò disciplinatamente a stipendio, senza alcuna gratifica, anche se le sue produzioni generavano (e continuano a generare) fatturati miliardari. Se ne andò solo quando chiese un premio di produzione e gli risposero picche; non era previsto dal contratto. Altri tempi. Quando Lennon e McCartney giovani cercavano un editore per le loro canzoni, Martin li mandò alle edizioni della EMI e, dopo il loro rifiuto, dal boss Dick James, che fondò per loro la Northern Songs. Ai primi accenni di successo, James volle sdebitarsi e offrì a Martin sottobanco una quota di quella gallina dalle uova d’oro. Sarebbe diventato miliardario, George Martin, ma disse di no. Per correttezza. “Io non faccio certe cose”.
Anni fa la EMI onorò il suo vecchio dipendente con un ottimo cofanetto di 6CD, Produced By George Martin – 50 Years In Recording, forse per farsi perdonare il fatto che poco tempo prima i restauratori della colonna sonora di Yellow Submarine avevano pensato bene di eliminare certe sue parti orchestrali di cui andava fiero. Il box è ancora in commercio ed è un viaggio fantastico in un perduto mondo discografico di cabaret e pop jazz, Spike Milligan e Johnny Dankworth, Ella Fitzgerald che canta i Beatles e Shirley Bassey che va prima in classifica con una canzone di Joe Sentieri (!). “A Sound Life”, si chiama il saggio di accompagnamento del grande Mark Lewisohn, ed è un titolo perfetto per Martin e per il suo grande amore diventato mestiere, e fama, e mito. Con quel misto sempre di umiltà, understatement e ironia che a suo tempo seppe trasmettere ai Beatles.“Sono grato alla vita per tutto quello che mi ha dato. Ogni tanto me lo dico: ‘ma lo sai che sei stato proprio fortunato?’”.
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