Francesco Guccini. Canzone di giugno, n. 80
di Riccardo Bertoncelli
Di un tipo così in America direbbero che è “one of a kind”, “di una specie tutta sua”. Il diretto interessato vola più basso: le canzoni, gli è capitato di scrivere, le crea gente “quasi normale/ ma con l’anima come un bambino/ che ogni tanto si mette le ali/ e con le parole gioca a rimpiattino”.
Sarà, ma io sto con gli americani. Guccini non l’ho mai trovato “quasi normale” ma proprio “speciale”, e per tante buone ragioni. Perchè non ha mai sgomitato, anzi, una naturale pigrizia in questo caso provvidenziale lo ha allontanato spesso e volentieri dalla mischia. Perchè non ha mai voluto apparire, diffidando da uomo antico degli Appennini di tutto quello che di moderno e modaiolo è comparso sulla scena del mondo negli ultimi 50 anni, dal Festivalbar a Facebook. Perchè si è sempre preso i suoi tempi, anzichè farsi fare l’agenda dagli altri; quindi un disco quando veniva e in un anno magari una canzone sola (sembra il mio amico Robert Wyatt). Perchè non è mai stato in tournée, con fanfare e comunicati stampa, eppure per quarant’anni e anche di più non è mai sceso dal palco, e quindi se vogliamo il vero “Never Ending Tour” è stato suo, poche storie, Bob Dylan non gli fa un baffo. Ciò non toglie che in certi anni abbia suonato poco, molto poco; perché buttava così, perché aveva da scrivere un libro o da compilare quel dizionario italiano-pavanese che lo ha tenuto impegnato per un sacco di tempo – occupazioni che, è noto, anche se a Broadway non capirebbero, sono molto più importanti del fare musica, essere personaggio e gestire la carriera.
Il pubblico adora Guccini proprio per questo. Perchè è un uomo libero, perchè è uno vero, e cosa c’è di meglio di farsi regalare canzoni da un tipo del genere? Uno che non ha maschere o doppi teatrali, così che il Guccini della realtà quotidiana è precisamente sovrapponibile al Guccini che si ascolta nelle canzoni. D’altro canto, uno che intitola un suo disco Via Paolo Fabbri 43 e poi abita veramente a quell’indirizzo, be’, è uno che la sincerità la pratica fino al masochismo. E mica è solo questione di residenza: di Francesco conosciamo l’albero genealogico, il posto delle fragole (Pàvana, il mulino dei cugini), gli amori e gli amici di ieri e di oggi, la figlia, i vicini, il bar sotto casa, grazie a canzoni che volano sì nei cieli della fantasia ma non così in alto da perdere il contorno della realtà e della vita vera. È proprio questa sincerità, credo, una sincerità mai spataccona e ostentata ma molto pudica, diffidente, da vero uomo dei monti, a rendere Guccini vicino a chi ascolta e a far quindi scattare un sentimento di complicità e di trasporto nei suoi confronti. E questo, altra “specialità”, vale non solo per quelli come me della ingombrante generazione 1940-1955 ma anche per i trentenni e perfino per i teenager. Non è Guccini che si è iPodizzato o ha arredato un superattico sui social, come si dannano tanti suoi colleghi con risultati imbarazzanti; sono gli altri che hanno deciso di venirlo a trovare nel suo mondo, che è sempre lo stesso e sempre diverso, pane che fermenta con il lievito del tempo e delle stagioni.
Conosco Francesco da quarantacinque anni, da un giorno di luglio quando presi un lento treno da Novara a Bologna per chiarirmi con lui a proposito della famosa Avvelenata, come Gary Cooper con Frank Miller in Mezzogiorno di fuoco (chi tra noi fosse lo sceriffo e chi il villain, era tutto da vedere). Fu un bellissimo incontro che ho già raccontato e qui non voglio ripetere. Quel giorno feci tesoro di tante cose e, fra le varie ed eventuali, imparai a stimare quel ragazzone pieno di energia e di cultura, che non ho mai smesso di seguire. Avevo la testa persa in sogni di musica d’altro tipo, jazz e rock d’avanguardia, ma se lo spazio per la canzone d’autore da quella volta aumentò, nella mia officina di musica, fu anche grazie a lui, e a tutto ciò che venne dopo. Riassumo di volata: tre leggendari concerti a Novara con Flaco appena ingaggiato e Francesco immerso nel mio mondo con i miei amici, come sarebbe poi capitato a me con lui, a Bologna e a Pavana. Una fuga da militare (“fuori presidio”, reato prescritto) per una intervista RAI in via Paolo Fabbri finita “da Vito” con ciucca siderale di Limbo ghiacciato. Incontri a San Remo al Premio Tenco, a dire il vero più nella mitica infermeria che in platea. Enne presentazioni di dischi a Milano, di preferenza al Brelìn, comunque sui Navigli, in quella parte “vintage” di Milano. L’indimenticabile conferenza stampa d’addio alle scene in un circolo Arci di Milano rimasto fermo per incantesimo al 1963, alla vigilia di un matiné del Garden Blu/ ricchi premi e cotillon/ fascia d’oro per la miss. Tre libri e mezzo curati come editor, e un dizionario veronese-italiano che gli regalai mille anni fa per cui non ha mai smesso di ringraziarmi. Cosa dimentico? Una meravigliosa volta a Conegliano Veneto, 1995, una serata che solo a ricordarla non sembra vera, a festeggiare la Nanda Pivano con Francesco, De André, Ginsberg, Andrea Zanzotto, Lolli, Jay McInerney, e manca forse qualcuno.
Cosa non posso dimenticare, invece: il piacere che mi fece, l’orgoglio che mi diede il suo invito a intervistarlo in pubblico quando, dopo il ritiro, “aprì” per un certo periodo lo show dei suoi Musici con un’ora di ricordi sul palco. Ho in mente una serata nella cattedrale di Avezzano strapiena di gente, un Natale di non tanti anni fa, con un vescovo gucciniano ultrà in prima fila; e il pienone sempre, a Roma e a Milano, anche due date di fila, solo per sentirlo parlare, ben sapendo che non avrebbe cantato – per ricordare i suoi esordi da cronista con suor Eustachia Maria Peloso, per ascoltare con spasso i tormenti di orchestrale al seguito di Nunzio Gallo in Svizzera, per confrontarci con reciproche nobili concessioni sul tema inevitabile dell’Avvelenata. Non scrivo queste cose per vanità ma per spiegare che se mi avventuro in giudizi come quelli che ho appena espresso, è perché nel caso specifico so il fatto mio; il tipo lo conosco, e per raccontarlo vinco con piacere la mia ritrosia di orso piemontese, cugino, assicurano gli esperti, di quello appenninico.
Non ci fu festa per i settanta, non ci sarà per questi ottanta, caduti anche in un momento balordo. Ma ognuno a modo suo userà la ricorrenza per quello che vale; una facile scusa per dire “grazie” a un uomo (viene prima dell’artista) che ci ha regalato divertimento e spunti di riflessione lungo tutti questi anni. Un hombre vertical, per usare la lingua di Flaco, specie rarissima in questo nostro tormentato Paese e quindi ancora più ammirevole. E a proposito di Sudamerica, Francesco, ti devo un rum speciale che ti ho promesso e che non mancherò di consegnarti nei dovuti modi, appena il virus la smette e Raffaella si distrae un attimo.
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