“Pistol”: storia del punk inglese, di chi ne è morto e di chi è sopravvissuto

Dirò subito che non potete perdervi “Pistol”, la serie televisiva sulla storia dei Sex Pistols, tratta dall’autobiografia di Steve Jones. Non potete perdervela anche se avete problemi con il punk; il punk quello vero, non quello post. Vi basta un minimo d’interesse per la storia della società e del costume occidentali degli ultimi 80 anni. O anche semplicemente per le belle storie raccontate bene.

Dirò anche subito che non ho fatto ricerche sull’accuratezza dei fatti storici narrati e che non sono nemmeno un cultore della band, per cui mi attengo a quanto narra la serie. D’altronde, tra i protagonisti della storia, l’unico che non ha gradito è stato Johnny “Rotten” Lydon che ha cercato, per le vie legali, di opporsi all’utilizzo delle musiche del gruppo, definendo la serie: “la merda più irrispettosa che ho mai dovuto sopportare”. Che poi, a vederla, non si capisce perché, in quanto Rotten non ne esce affatto male. Un tipo schizzato certo, quello interpretato da Anson Boom, ma d’altronde stiamo parlando del cantante dei Sex Pistols, non dei BTS. Allo stesso tempo, ne esce comunque anche un personaggio, oltre che genialmente creativo, a suo modo empatico. Quello che invece non si può dire del Malcolm McLaren interpretato magistralmente da Thomas Brodie. Lui sì avrebbe potuto semmai ricorrere alle vie legali, se non fosse già morto.

“Pistol” emoziona e commuove persino, nel raccontare la storia di un gruppetto di ragazzi “no future”. La trama parte naturalmente dalla storia di Steve Jones, poco più di un ladruncolo da strada, senza vera e propria educazione scolastica, reduce dal riformatorio, cresciuto in una famiglia dove subiva gravi abusi da parte del patrigno. Qualcuno a cui la società non aveva dato nulla e da cui la società non si aspettava nulla. Le pretese artistiche della band che aveva messo in piedi con Paul Cook raggiungono un nuovo livello grazie all’incontro con McLaren e la sua compagna Vivienne Westwood. Intorno a loro e al loro negozio di abiti, “Sex”, crescerà in Londra in quegli anni un milieu (come lo chiamerebbe il personaggio interpretato da Brodie) di giovani creativi ribelli che vogliono fare (sempre parole di McLaren) una “rivoluzione”.

Magistrale a tal riguardo la raffigurazione di Pamela “Jordan” Rooke, provocatrice che se ne andava in giro per Londra con mise scandalose e sopra le righe, esponendo il seno, con i capelli colorati e increspati, il make up alla Bowie: una icona della moda e dell’espressività punk. Esilarante la scena, che “Jordan” stessa ha confermato, in cui il controllore del treno la sposta in prima classe per evitare lo scandalo dei viaggiatori, scandalo a cui rispondeva con fredda indifferenza esterna e evidente soddisfazione interna.

“Pistol” è quindi la storia di questa rivoluzione incompiuta, ma comunque deflagrante e duratura, lanciata con cinismo iperattivo da McLaren, capopopolo di un gruppetto di giovani para-londinesi senza molti freni inibitori. Una rivoluzione di stile e di attitudine che ha lasciato un segno indelebile nella cultura mondiale. Il ruolo di McLaren nella vicenda aiuta lo spettatore a ricollegare le radici del punk inglese al situazionismo, movimento che aveva avuto grande spazio nell’avanguardia culturale e politica degli anni ’50 e ’60.

Ma oltre alla Storia (con maiuscola), in “Pistol” ci sono le storie. Quella di Steve Jones che dicevamo prima. Quella di Johnny Lydon, of course. Che qui viene disegnato come un ragazzo molto, forse troppo, creativo e immensamente fragile. Ma che sembra trovare, nel caos della vicenda dei Sex Pistols, una sua maniera per esprimersi e anche rafforzarsi nella sua determinazione umana e artistica.

Simile è anche la storia, a sorpresa, di Chrissie Hynde. A sorpresa, ma non troppo, perché chi si era letto l’autobiografia della frontwoman dei Pretenders (io ne ho una copia autografata, chiusa la parentesi…) sapeva che lei c’era da quelle parti. Un’americana trapiantata a Londra perché, sulle tracce dell’adorato David Bowie che aveva conosciuto nel suo nativo Ohio, sentiva che era lì che stavano succedendo le cose nuove di cui lei voleva far parte. Sembra che Chrissie sia rimasta gradevolmente stupita nel vedere lo spazio dato nella serie al suo personaggio. Tuttavia, è evidente che tra lei e Jones ci fosse un legame speciale e che il chitarrista le abbia voluto dare il suo giusto posto nella storia. Epica la scena in cui Chrissie rimprovera a Steve di aver dato il posto nella band a Sid Vicious e non a lei e lui le risponde che lei è una vera musicista con vero talento e non può ridursi a suonare con gente come loro. L’attrice è una carismatica Sydney Chandler che consegna alla storia una Hynde immersa in questa selvatica scena punk ma sempre in pieno controllo di sé. Determinata a provare la sua strada artistica in un ambiente e una industria marcatamente maschili(sti). Allo stesso tempo, il suo è il personaggio più equilibrato e umano di tutti. La dolcezza con cui tratta Sid Vicious e poi la sua reazione alla notizia della morte, non possono che far pensare che questa sarebbe stata la prima di una serie di tragedie legate all’eroina, che avrebbero costellato gli anni a venire della musicista.

E veniamo appunto a Sid. La serie era cominciata con il dramma di Steve Jones, ma il suo personaggio, puntata dopo puntata, sembra ricomporsi, trovare uno scopo e una famiglia nella band, fino alla scena significativa in cui i Pistols entrano in casa sua e bullizzano il patrigno. Mentre Steve si riscatta, il dramma scivola allora verso Sid Vicious e la sua Nancy. La loro tragedia darà il tono finale alla miniserie. La tragedia di due ragazzi belli incasinati e morti giovanissimi in una maniera orribile, perché di questo si tratta e uno dei meriti di chi racconta questa storia è di raccontarla proprio così, senza nessuna mitologia punk tesa a fare di due poveri disgraziati, delle icone. Sid Vicious che prima di essere diventato un tossicodipendente era un masochista, che attaccava briga per il gusto di prenderle. Lo stesso Sid Vicious che entra nella band per nessuna ragione musicale. Difatti, gli insegnarono in fretta e furia a maneggiare il basso con risultati scarsi, al punto che alla fine sull’album le parti di basso le farà Steve Jones (anche perché l’altro si beccò una epatite a forza di farsi). Sid divenne una “pistola” semplicemente perché era amico di Johnny e perché aveva il look e l’attitudine giusti. “Se Johnny Rotten è la voce del punk, Sid Vicious ne è l’attitudine”, decretò Malcolm McLaren, dopo aver licenziato il precedente bassista (forse l’unico dei 4 che ci capiva un po’ di musica), Glen Matlock, perché “gli piacciono i Beatles”.

Ecco, questo alla fine è il punk. Decisioni prese a pene di segugio che in genere non portano a nulla se non a conseguenze fatali per chi le prende (vedi Sid Vicious). Ma che una volta ogni tanto creano una storia che vale la pena di raccontare. La storia di un gruppetto di ragazzi che non sapevano fare nulla, tantomeno suonare e fare musica, e che sono riusciti a fare un album, uno solo. Ma uno degli album più influenti di tutta la storia della musica registrata. Che la loro sia stata una botta di culo, un’alchimia speciale ma breve, una congiunzione astrale favorevole, una operazione cinica di un manager visionario e manipolatore, poco importa. C’è un pò di tutto questo, come la serie suggerisce; ma questo è punk, è caos. Viene fatto sul momento e preso come viene. Assomiglia alla vita. Sarà per questo che il suo messaggio ancora ci intriga.

di Giovanni Davoli 

Commenti

E T I C H E T T E

Mostra di più