Love - Forever Changes (1968)
Uno dei versi più belli di quel capolavoro U2 che è One dice che “l’amore è un tempio, la legge più alta”. 25 anni prima un gruppo californiano, per troppo tempo sottovalutato, scelse il nome Love, producendo alcune delle pagine più particolari della musica di quel decennio. Nascono per l’impulso e la fantasia del primo grande chitarrista rock nero di Los Angeles, prima di Jimi Hendrix: Arthur Lee. Funambolico, originario di Memphis, sgargiante nei suoi vestiti emblema del Flower Power, a metà anni ‘60 ha già un bel bagaglio di esperienze: fonda e suona in diversi gruppi e soprattutto produce il primo 45 giri dove compare la futura leggenda Hendrix, My Diary di Rosa Lee Brooks, nel 1962. Fonda i Love a metà anni 60, uno dei primi gruppi interraziali dato che lui e John Echols, chitarra solista, sono neri, a cui si aggiungono Byan Maclean, cantante, Ken Forssi al basso, Snoopy Pfisterer alla batteria. Firmano inaspettatamente per la leggendaria Elektra di Jac Holzman e Paul Rickolt, vanno a vivere in una villa semi diroccata che chiamano “the Castle” a Topanga Canyon e il leggendario direttore creativo della Elektra, William S. Harvey, disegna per loro uno dei primi logo di una band in assoluto, la parola Love con la lettera “O” che ingloba i simboli del maschile e del femminile. Nel 1966 il primo singolo già fa parlare di sè: è una cover di My Little Red Book di Burt Bacharach, che fa da apripista al loro primo album dello stesso anno, Love: è un turbine di elettricità, i suoni che arrivano dalla Gran Bretagna, un po’ di sana pazzia personale, con i primi pezzi mitici, tra cui A Message To Pretty e Signed D.C., spettrale lamento sulla tragedia dell’eroina, probabilmente dedicata a Don Conka, il primo batterista della band. Nel 1967 entrano Michael Stuart e Tjay Cantrelli, ai fiati, mossa che darà importanti conseguenze sonore al loro second disco, Da Capo (1967): dominato dai 19 psichedelici minuti di Revelation, il disco offre ballate solari (Orange Skies primo grande pezzo a firma Maclean), momenti che sanno di flamenco (¡Que Vida! e The Castle, ispirata alla loro villa-comune) e i fiati la fanno da padrone in She Come In Colors. Il disco ebbe un certo successo trascinato dal singolo Seven & Seven Is, che sembra una sorta di proto punk di due minuti scritto 10 anni prima del punk. Il successo è comunque solo discreto, e la band soffre di problemi economici e personali, con molti componenti alle prese con problemi di droga. Eppure appena un anno più tardi, pubblicano quello che è considerato, a buona ragione, uno dei dischi più belli di tutti i tempi: Forever Changes. Harvey con Bob Pepper (illustre disegnatore americano) pensa ad una delle prime copertine che non era una fotografia del gruppo, ma una sorta di “cuore” composto dai disegni dei volti dei membri della band, in pieno stile psichedelico per l’uso dei colori. Il disco, memorabile, è tutto giocato sull’ambizione, quasi filosofica, dei Love, ma soprattutto di Lee, di descrivere le luci e le ombre di quella stagione piena di potenza creativa, con momenti di gioia e presagi di morte, contrasti di speranze e delusioni. Il disco si apre con una delle triadi più belle di sempre nel rock: Alone Again Or, di Maclean, è deliziosa nell’arpeggio iniziale, per poi svilupparsi con un rock flamenco orchestrale, arricchita un intermezzo di fiati mariachi, irresistibile; A House Is Not A Motel è potente e sinistra, tutta costruita in crescendo, dedicata alla tragedia del Vietnam (The bells from the schools of wars will be ringing\More confusions, blood transfusions\The news today will be the movies for tomorrow\And the water’s turned to blood); Andmoreagain è una delicata e acustica elegia, una sorta di inno hippie già decadente (And if you’ll see Andmoreagain\Then you might be Andmoreagain\For you just wish and you are here\Then you feel your heart beating\Thrum-pum-pum-pum). Ma le meraviglie non finiscono qui: archi classicheggianti e addirittura una spinetta per The Red Telephone (che leggenda vuole ispirata al telefono rosso che avevano nella loro casa a Topanga Canyon), la delicata And Let Live; ci sono momenti quasi di pop bacharachiano in Maybe The People Would Be The Times Or Between Clark And Hilldale o la bellissima The Good Humor Man He Sees Everything Like This, con addirittura un violino pizzicato. C’è pure il tentativo di scrivere qualcosa alla Dylan (Bummer In The Summer). Si chiude con altri due capolavori psichedelici, The Daily Planet e You Set The Scene (con la deliziosa sezione di archi), per un album che ha una misteriosa carica musicale, evidente anche ascoltandolo solo ora, un capolavoro di psichedelia acustica e sinfonica riconosciuto solo a posteriori. Si perchè le vendite furono modeste e l’anno successivo Lee scioglie la band, ma continua a pubblicare con i Love, nonostante la Elektra li scarichi per puntare su un’altra band niente male, i The Doors: tra le cose più interessanti che pubblicherà, Four Sail nel 1969 e nel 1970, in un disco che si chiama False Start, in un pezzo, The Everlasting First, c’è la chitarra di Hendrix: leggenda vuole che i due scrissero un disco insieme, ma non se ne è mai saputo più nulla. Lee continuerà a scrivere musica, ma niente riuscirà mai ad arrivare ai livelli, magici, di questa perla musicale da riscoprire.
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