Bob Dylan - Highway 61 Revisited (1965)
L’ultimo mese delle storie musicali 2021 è dedicato a dischi fondamentali. Chi ha la pazienza di leggermi sa che ogni anno a Dicembre scelgo un disco di Bob Dylan. Che per dischi fondamentali nella storia sta come i pilastri per una casa. Quello che ho scelto per questa domenica di santo Stefano è paragonabile ad un uragano che cambia per sempre la musica e che si chiama Highway 61 Revisited, che esce per la Columbia il 30 Agosto del 1965. Il titolo già dice tutto: la Highway 61 era ai tempi di Dylan la strada nazionale più lunga d’America, che per oltre 2000 km seguiva il corso del Mississippi, passava per Duluth, dove Dylan è nato, ed arriva a New Orleans. Come il nastro d’asfalto, Dylan raccoglie la musica del Delta, il blues, la tradizione del folk, inserisce il plug della chitarra nell’amplificatore, in modo molto più deciso e convinto che nell’altro capo che scrisse nel 1965, Bringing It All Back Home (che apre la sua leggendaria triade elettrica, che termina con l’altro capolavoro che è Blonde On Blonde del 1966) e scrive 9 canzoni una più sensazionale dell’altra, che anche a distanza di ormai 55 anni suonano nuove, incredibilmente profonde, per non parlare dei testi. Fu registrato in appena 6 giorni, in sessioni dove Dylan, che stava scrivendo una sorta di romanzo, che uscirà nel 1971 con il titolo Tarantula, in una sorta di flusso di coscienza: con il fidato produttore discografico Tom Wilson misero insieme una band formata da Mike Bloomfield, Al Kooper, Paul Griffin, Charlie McCoy, Harvey Brooks, Bobby Gregg, Sam Lay, che in una settimana agli Studio A della Columbia a New York furono protagonisti della magia. Che parte subito con l’intro di organo di Kooper che apre Like A Rolling Stone, il primo singolo ad abbattere il limite dei 3 minuti di durata (addirittura doppiandolo in lunghezza, 6 minuti di Mito), che diviene la canzone del rock, e che partendo da Muddy Waters e dal suo pensier che “una pietra che rotola non può riempirsi d muschio” parla della generazione in fermento che viveva con Dylan, una canzone che è una dichiarazione di intenti, condensate in alcuni dei passaggi testuali che costruiranno l’epopea del rock: nessuno mai saprà a quale Miss Malinconia Dylan dice “Che effetto fa\che effetto fa\senza un posto dove stare\che nessuno ti conosce\come un sasso che rotola via?” per chiudere con “Va’ da lui adesso\che ti chiama, non puoi mica rifiutare\Se non hai niente, non hai niente da perdere\sei invisibile ormai, non hai segreti da nascondere”. Tombstone Blues è un blues pieno di figure storiche (Bette Starr, famosa bandita americana, la figura biblica di Dalila, Jack lo Squartatore, San Giovanni Battista messi tutti insieme). Ogni canzone diventerà una sorta di canone dylaniano, come le meravigliose It Takes A Lot To Laugh, It Takes A Train To Cry, famosa per il suo sguardo quasi malinconico sul mondo, o il blues di From A Buick 6, ispirata alla canzone Milk Cow Blues di Sleepy John Estes. Dylan suona il piano in Ballad Of Thin Man, uno dei suoi pezzi più grandiosi, una incredibile canzone di protesta, con le ossessive domande poste a Mr. Jones (definito da un grande critico, Robert Sheldon, uno dei più grandi anchetipi dylaniani), anche questo personaggio metafora di qualcos’altro, forse la società, forse la stampa musicale, forse un simbolo del conservatorismo, chi lo sa “Perché sta succedendo qualcosa qui\ma tu non sai che cosa sia\vero signor Jones?”. Queen Jane Aproximately, dal suono gioioso e composito, parla della facilità di cadere in disgrazia (in una famosa intervista del 1965 Dylan descrisse come un uomo Queen Jane). Highway 61 Revisited è, in linea con la tradizione dei racconti ebraico-cristiani, con il suo ritmo circense e zingaresco, una galleria di 5 situazioni, da Abramo che sacrifica Isacco sulla Highway 61, a Georgia Sam, omaggio a Blind Willie McTell, uno dei miti di Dylan, alle prese con il dipartimento di Sanità, a Mack the Finger che ha “un migliaio di telefoni che non funzionano”, ad una “quinta figlia” che cerca un “terzo padre” e che finirà per conoscere la “settima sorella” sulla Highway 61, fino ad un truffatore che cerca di creare la prossima guerra mondiale. Concludono due brani deliziosi: la dolce Just Like Tom Thumb’s Blues, forse ispirata ai padri della beat generation, e la magica, ipnotica, meravigliosa Desolation Row (unica canzone acustica), una infinita carrellata da 11 minuti dell’umanità, dei dolori, della vita, ispirata a Fellini, che parte da Einstein, passa per Ofelia ed Amleto, da Ezra Pound ed arriva a Duluth, Minnesota. Nel 2010, Daniel Kramer nel commentare la sua foto di Dylan che fa da copertina di questo album leggendario, raccontò che fu fatta alla fine di una sessione fotografica nell’appartamento che Dylan divideva a New York con il suo manager Albert Grossman a Gramercy Park. Dylan scese in strada e chiese in prestito ai negozianti del quartiere dei vestiti, che durante le foto avevano ancora i targhettini attaccati. Indossò una maglietta della Triumph, la marca di motocicletta che lui amava tanto, e tenendo i suoi Ray Ban nell’altra mano, fu immortalato nel famoso scatto, con Grossman in piedi sullo sfondo. Kramer, grandissimo fotografo e poi anche documentarista e regista, disse: “Ha uno sguardo ostile o di malumore ostile. Sta sfidando me, voi o chiunque lo stia guardando: che intenzioni hai, dico a te?”. Ed ha quasi ragione a sfidare chiunque, perchè questa è una delle pietre miliari della musica popolare contemporanea, probabilmente il disco che ha più influenzato coloro che son venuti dopo, sia direttamente che indirettamente. È il modo migliore per terminare l’anno di storie musicali, userò questi giorni per raccogliere altre storie, altri dischi, altre canzoni per continuare a fare una cosa che mi piace tanto: raccontarvi storie di musica e musicisti.
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