Wayne Shorter - Speak No Evil (1966)
Il novembre davisiano è stato tutto dedicato alle magie del secondo quintetto, la formazione che dal 1963 al 1968 incantò gli amanti del jazz di tutto il mondo, grazie ad un percorso creativo e compositivo davvero senza pari, per uno dei gruppi più indimenticabili di tutti i tempi. Per l’ultimo appuntamento di questo piccolo excursus, l’attenzione cade sull’innesto più tardi del quintetto, quello che diede davvero la spinta ultima e decisiva al cammino della band. Wayne Shorter ha 31 anni quando Miles Davis lo chiama per questo nuovo progetto, nel 1964. All’epoca, Shorter rispetto a Herbie Hancock, Tony Williams e Ron Carter, era un musicista già affermato: aveva suonato con i grandi e dal 1959 era il sassofonista principale dei Jazz Messengers di Art Blakey. Quando Davis lo convince ad unirsi al suo nuovo progetto, la Blue Note lo ingaggia, in tempismo perfetto, per delle sessioni di registrazione, sia nel 1964 che nel 1965, le quali diventeranno dei dischi capolavoro negli anni successivi, saggiamente distillati dai discografici della grande casa editrice del jazz. Shorter abbina alla sua tecnica sassofonista una magia autorale davvero notevole, e nei quintetti davisiani, ma anche nelle formazioni successive, è colui che più di tutti ha mano libera dal Maestro, e dalle cui composizioni più attinge. Il disco di oggi è il terzo, cronologicamente, delle registrazioni del 1964 ad essere dato alle stampe, nel 1966, dopo i già ottimi Night Dreamer e JuJu. Rispetto alla formazione dei due precedenti, qui Shorter cambia line-up: si affida ai suoi nuovi compagni davisiani, Herbie Hancock al piano, Ron Carter al contrabasso (Carter alla fine della sua carriera vedrà scritto il suo nome su oltre 2000 incisioni dove ha suonato, record di tutti i tempi), Elvin Jones, il fenomenale batterista già nella band di John Coltrane e Freddie Hubbard, tromba di Art Blakey nei Jazz Messengers. L’obiettivo di Shorter è quello di spingere molto di più su sue melodie e idee, dopo che una certa critica lo aveva definito un sosia del grande Trane, soprattutto per via che lui per un certo periodo suonò in quartetto con McCoy Tyner, Elvin Jones e Reggie Workman, tutti allievi coltreriani. Speak No Evil è un passo delicato, ma al contempo pieno di tensioni musicali per l’atmosfera generale che hanno le composizioni, verso un jazz nuovo ma che non perde di vista i punti fermi del passato: non so se fosse stato l’avvicinamento a Davis, ma questo disco, capolavoro assoluto, parte da dove finiva quella meraviglia leggendaria che fu Kind Of Blue (1959). In scaletta, 6 magici pezzi tutti a firma Shorter, 5 dei quali quasi a seguire un filo logico, di magie melodiche, di ritmi mai eccessivi, di un linguaggio che sa di fresco pur non tangendo quello della new thing, che proprio in quegli anni stava parallelamente crescendo rispetto al bop “classico”. Alcuni brani sono diventati standard, tra cui Witch Hunt, dai meravigliosi incastri melodici, Fee-Fi-Fo-Fum (che è un modo di dire tipo il nostro “ucci ucci, sento odor di cristianucci”, è un ancoraggio blues di hard bop, ma anche la mano tesa al modalismo aperto da Davis a fine decennio precedente. Speak No Evil, uno dei brani più belli di Shorter e del decennio, è una tavolozza cromatica di minori e su tutto si erge il pianoforte di Hancock che spinge attraverso una serie contrappunti, divenuti iconici. Il disco è meravigliosamente omogeneo anche in Dance Cadaverous e nella bellissima Infant Eyes, dal sognante intro pianistico di Hancock e l’introduzione, dolcissima, del sax di Shorter. Il set si conclude con un’altra perla, Wild Flower, una ballata cadenzata con accenti spigolosi di Hancock che prende il testo e lo inverte, trovando un contrappunto cromatico che prosegue in prima linea invece di suonare in opposizione. Shorter con questo disco diviene figura di paragone come sassofonista, per il suo lirismo oltre che come compositore, Speak No Evil, è il disco della consacrazione e oggi è nelle classifiche dei dischi jazz più belli di sempre, anche nella suggestiva Core Collection della Penguin Jazz Guide. La magia di queste registrazioni verrà riproposta in altri lavori negli anni successivi, tra cui ricordo The All Seeing Eye e Adam’s Apple, altri due dischi memorabili. In copertina, virata in blue per rendere bene l’atmosfera di romantica malinconia che sottotraccia permea tutto il disco, c’è Shorter con la sua prima moglie, Teruko Nakagami, e il segno di un bacio sul titolo. Album leggendario, che chiude il ricordo di un leggendario gruppo.
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