Steely Dan - Aja (1977)

Il tema delle Storie di Musica di marzo me l’hanno dato i Daft Punk (che si sono sciolti dopo quasi trent’anni). Quindi per queste domeniche marzoline storie di duo musicali. Il primo di cui scriverò oggi nasce a fine anni ’60, quando due ragazzi innamorati del Jazz, Walter Becker e Donald Fagen si incontrano al Bard College, a nord di New York. Tra i primi a unirsi agli esperimenti musicali dei due c’è Chevy Chase, poi futuro grande comico. Dopo qualche serata nei locali, vanno in tour con il gruppo di Jay & The Americans, che erano prodotti da Gary Katz, fondatore dell’etichetta ABC Records. Katz è affascinato dai due, dalle idee che hanno in mente, e li spinge a formare un gruppo per dar sviluppo alle loro composizioni. Fagen e Becker come nome scelgono quello del “rivoluzionario” dildo a vapore che William Burroughs descrive ne Il Pasto Nudo: Steely Dan. Inizia qui la storia di una delle più geniali e eccezionali coppie della musica degli anni ’70, immeritatamente oggi poco conosciuti, ma capaci di cose mirabolanti. Il debutto è già fenomenale: Can’t Buy A Thrill esce nel 1972, con in formazione Jim Holder (batteria), Jeff Baxter (chitarra) e David Palmer, con Becker e Fagen a suonare basso, chitarre, sintetizzatori, con Fagen anche cantante. Il disco ha subito due canzoni hit come Do It Again e Reeling in The Years. Inizia da qui una pubblicazione di un disco all’anno: con la stessa formazione nel 1973 esce Countdown To Ecstasy, nel 1974 Pretzel Logic, che contiene la straordinaria Rikki Don’t Lose That Number (dedicata a Horace Silver, l’immenso pianista jazz, che arriva in top five). Qui accade una cosa particolare: Fagen inizia ad avere fobia delle esibizioni dal vivo e il 1974 è in pratica l’ultimo anno in cui suoneranno in concerto, con il duo che apre la sigla Steely Dan ad un mondo variegato e favoloso di musicisti e sessionisti, il meglio che c’è sulla piazza. Katy Lied (1975) ne delinea lo stile, già unico e riconoscibile, che mixa con una magia speciale (e probabilmente inarrivabile) jazz, rock, blues, pop ad una perfezione esecutiva che diventerà proverbiale, il tutto accompagnato da testi criptici, ironici, colti che diventeranno iconici al pari della musica. Dopo The Royal Scam (1976) firmano con la Warner Bros. come compositori, ma continuavo a essere fedeli come Steely Dan alla ABC di Katz. Con cui nel 1976 progettano un disco che ha un unico obiettivo: la perfezione del suono. Ingaggiano quindi il meglio dei sessionisti, un dream team in cui si ricordano tra gli altri Victor Feldman (Fender Rhodes e vibrafono), Michael Omartian (al piano, poi produttore di Christopher Cross, vincitore di 3 Grammy) Larry Carlton e Steve Khan (alla chitarra), Rick Marotta e Steve Gadd (due giganti della batteria) Pete Christlieb e Tom Scott (sassofono del Tonight Show il primo, colui che curerà gli arrangiamenti de fiati nel disco il secondo) e proprio per non farsi mancare niente, Wayne Shorter in un assolo leggendario di un brano e una sezione cori da far invidia: Michael McDonald (futuro The Doobie Brothers), Timothy B. Schmit (che proprio quell’anno si unirà agli Eagles, con cui canterà la mitica I Can’t Tell You Why) e il meglio tra coristi femminili e maschili, in tutto una quarantina di musicisti campioni. Che verranno osservati e scelti in base alle loro caratteristiche per ogni brano in ben 4 studi di registrazione, sotto le cure maniacali non solo di Fagen&Becker, ma di Gary Katz e da una squadra di ingegneri del suono da sogno, tra i più grandi di sempre: Roger Nichols, Elliot Scheiner, Al Schmitt, Bill Schnee, con alla masterizzazione un altro colosso, Bernie Grundman (che messi insieme fanno una valigia di Grammy Awards vinti ad oggi per l’ingegneria sonora). Le leggende sulle sessioni di registrazioni su Aja, questo il titolo che verrà scelto dagli Steely Dan, pubblicato nel settembre 1977 (si pronuncia in inglese come Asia e si dice fosse un omaggio alla bellissima moglie coreana di un amico di Fagen) diventeranno proverbiali: ore di ricerca della rullata perfetta, serie di assoli ripetuti alla ricerca della take giusta, in un clima che però non divenne mai isterico, quanto piuttosto figlio della idea comune di scrivere la perfezione. E con la perfezione si parte dalla copertina, tra le più belle di sempre: uno scatto del fotografo giapponese Hideki Fujii che ritrae la modella e attrice giapponese Sayoko Yamaguchi. I 7 brani del disco sono 7 perle che spiegano al meglio il suono Steely Dan: Black Cow (dal nome di un cocktail) è magnetica e perfetta, con gli intrecci meravigliosi tra sassofoni, piano elettrico, i cori; Aja è ancora oltre, 8 minuti di sensazioni che delicatamente viaggiano per l’oriente, con la batteria di Gadd a troneggiare, prima dell’assolo leggendario di Wayne Shorter (che fu provato più volte per trovare le sonorità volute da quei due pazzi), con gli intrecci del doppio piano, voicing jazzisti, tre chitarre elettriche. La terza traccia è probabilmente la loro canzone simbolo: Deacon Blues è la storia di un “perdente”, che però non ha ancora perso la voglia di mettersi in gioco; il leggendario ritornello infatti dice “Learn to work the saxophone\I play just what I feel\Drink Scotch whiskey all night long\And die behind the wheel\They got a name for the winners in the world\I want a name when I lose\They call Alabama the Crimson Tide\Call me Deacon Blues”, dove il Crimson Tide (la marea cremisi) è un riferimento colto ad una squadra di Football dell’Università dell’Alabama che non perse una partita per anni di seguito (da quel momento sinonimo di vincente), mentre il verso di apertura (This is the day of the expanding man) è un riferimento ad un libro di fantascienza molto famoso, L'Uomo Disintegrato di Alfred Bester. E poi Peg, canzone su una sessione fotografica (geniale, nel testo dice “This is your big debut\It's like a dream come true\So won't you smile for the camera?\I know they're gonna love it) il cui assolo fu provato e suonato da 6-7 chitarristi prima di scegliere quello giusto (di Jay Gradon) dalle fenomenali armonie vocali di McDonald, che diventerà una hit (saccheggiata nei campionamenti negli anni futuri persino dai De-La Soul in Eye Know), le delizie di Home At Last e I Got The News. E che dire del funky rock di Josie, dal mitico riff suonato da Becker, che racconta di una bellissima ragazza, dal passato torbido, che torna nel quartiere, con successivo scombussolamento dei vari pretendenti. Definire la loro musica significa immaginare una linea che unisce soul, jazz, rock, pop in un modo magico, in questo disco ogni assolo, ogni intervento, ogni ascolto regala un particolare che prima era sfuggito e che sembra invece perfetto. Tutta questa perfezione non passò certo inosservata: il disco vinse a mani basse il Grammy come Miglior Ingegneria Sonora nel 1978, e a distanza di decenni ancora oggi è considerato dai maniaci della audiofilia il disco per provare la bontà di ogni impianto hi-fi. Venderà milioni di copie (uno dei primi dischi ad ottenere la certificazione di Platino per un milione di copie vendute negli USA) spargendo nel mondo la voce che “niente suona bene come un disco degli Steely Dan” (dal titolo di un articolo di Downbeat, la rivista bibbia del jazz americano). Due ultime curiosità: Deacon Blues fu una freccia che arriverà fino in Scozia, a Glasgow, dove colpì al cuore Rick Ross che chiamerà così il suo gruppo (i Deacon Blue, che debuttano con un grande disco nel 1987, Raintown) e in un film di poco tempo fa, Sing Street (pellicola deliziosa del 2016), che racconta la storia di un giovane dublinese che agli inizi degli anni ’80 crea un gruppo musicale per sfuggire al bullismo e per impressionare una ragazza, c’è questa clamorosa battuta: In un gruppo non conta saper suonare. Chi vi credete di essere, gli Steely Dan?

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