Miles Davis - Miles Smiles (1967)

Il traguardo delle 250 storie di musica lo festeggio con una delle sue rare foto in cui ride: probabilmente ne esistono altre, dato che è stato uno dei musicisti più fotografati di sempre, ma nelle copertine dei suoi dischi, dove compare sempre accigliato e “serio”, è un punto di svolta (unico tra l’altro). Il 24 e il 25 ottobre 1966, Miles Davis è con il suo formidabile Secondo Quintetto nei leggendari studi della Columbia sulla 30.ma strada a New York. Sotto gli occhi vigili del suo produttore principe, Teo Macero, arrivano i musicisti di questa nuova avventura, iniziata 3 anni prima: Herbie Hancock al pianoforte, Ron Carter al basso e contrabbasso, Tony Williams alle batterie e Wayne Shorter al sax. Quel periodo storico è una fase centrale della musica jazz, probabilmente anche poco conosciuta, perchè compressa dalla frenesia eccitante del bop degli anni ‘50 e l’arrivo delle avanguardie free form che dall’inizio del decennio successivo iniziavano ad incalzarla. Davis, non nuovo a innovazioni storiche (anzi, in pratica è passato in ogni trasformazione del jazz) fiuta che l’aria sta cambiando, ma rimane fermo su una convinzione (almeno per i successivi dieci anni): non gli importa del free jazz, ma una sua strada per il superamento degli schemi la vuole trovare. Buona parte degli esperimenti avvennero dal vivo, con il quintetto che nei primi anni sforna dischi dal vivo di successo (’Four' & More: Recorded Live in Concert del 1966, Miles in Berlin del 1965, registrato dal vivo alla Berliner Philharmonie nel 1964, prima prova del Secondo Quintetto con Shorter al sassofono, e anche altri titoli). Davis va in studio con l’obiettivo preciso di allargare la svolta modale degli anni precedenti. Lo fa prendendo la decisione di rallentare e mischiare i tempi ritmici, tanto Williams sa fare di ogni cosa una magia, e di giocare anche sugli arrangiamenti. Quello che ne viene fuori è un disco in cui l’alchimia tra le due istanze sembra magicamente riuscire, sebbene ancora oggi a distanza di anni la critica si divide tra chi lo vede come il suo primo esperimento di musica d’avanguardia (giudizio che a mio avviso è sbrigativo e smentito dalla musica stessa) e chi lo trova il primo, riuscitissimo, esempio di post-bop, per un processo simile a quello per cui i critici definiranno post-rock quella musica destrutturata e immaginifica di cui ho anche parlato in questa piccola rubrica per il rock occidentale. Sia come sia, Miles Smiles esce un anno più tardi, nel 1967, e quel sorriso sincero in copertina è con ottima approssimazione la sensazione che l’ascolto produce all’ascoltatore: 7 brani, uno solo a firma Davis, tre a firma Shorter e due cover riuscitissime. La scelta dei brani di Shorter fu un impegno gigantesco per il sassofonista, che sfodera nelle interpretazioni tutta la sua espressività magnetica, e i fraseggi tra i due fiati sono clamorosi. Ma la cosa stupefacente sono il pianoforte e la linea ritmica: Hancock spesso suona solo con la mano destra, per un suono più rarefatto e languido, Williams e Carter giganteggiano con i ritmi musicali, innestando nei brani scale africane, ritmi caraibici, soprattutto il tresillo cubano, in uno dei passaggi fondamentali di Footprints, brano di Shorter di qualche mese prima che qui viene suonato nella sua versione definitiva. C’è qui una delle ballad più intense e belle di Davis, Circles, di una dolcezza sconfinata, c’è il suono formidabile e accesso di Orbits, e Dolores, altro gioiello di Shorter. Le due cover sono brani che il quintetto aveva spesso suonato dal vivo, Freedom Jazz Dance di Eddie Harris, a cui vengono aggiunte due battute completamente diverse dallo standard, il quale ha però la struttura più classica di tutto il disco; Ginger Bread Boy fu scritta da Jimmy Heath, uno dei tre fratelli Heath grandi musicisti jazz, per la nascita di suo figlio, e appare nel suo disco del 1964 On The Trail. Davis ebbe Heath come sassofonista per un breve periodo nel 1959, durante l’assenza di Coltrane dal primo leggendario quintetto, per disintossicarsi. Anche questo brano faceva parte del “live book” di Davis e registrato per la prima volta solo in questo disco in studio. Come succede spesso con i grandi dischi di Davis, oltre la maestria e la tecnica musicale di uno dei gruppi più importanti e talentuosi della storia della musica, ciò che colpisce è la straordinaria sensazione che tutto sia naturale, che la sintonia mentale e spirituale tra i musicisti sia innata. Il disco ebbe sin da subito critiche formidabili, ma per tutta una serie di motivi storici successivi, tra cui l’esplosione della fusion del jazz, frutto delle sperimentazioni dello stesso band leader di oggi, verrà un po’ dimenticato. Tuttavia, dagli anni 2000, tutta la straordinaria musica del periodo verrà rivalutata, e Miles Smiles entrerà nella lista dei 1000 dischi fondamentali del Museo dei Grammy, e presente in tutte le classifiche dei capolavori del jazz. Fu il disco apice di una certa idea davisiana, approfondita con altrettanta bellezza, ma un pizzico di magia in meno, in due dischi successivi, Sorcener, che esce nello stesso anno, 1967, e Nefertiti, sempre del 1967. Bastano pochi mesi per il primo passo dell’ennesima rivoluzione, quando lo stesso quintetto suona gli strumenti elettrici in Stuff e George Benson entra con la sua chitarra elettrica in Paraphernalia, due cardini di Miles In the Sky: sono passati appena due anni, ma sembra un decennio. Ennesimo grande potere di uno dei più grandi stregoni della musica, personaggio unico e inimitabile.

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