Grateful Dead - Live\Dead (1969)

L’apice della musica di San Francisco si ha con un ossimoro, perlomeno linguistico. Avviene nel momento massimo di popolarità, nei teatri simbolo, con la band che incarna quasi tutti le caratteristiche di questo periodo. Nel 1969 i Grateful Dead sono ospiti per alcuni concerti al Fillmore West e all’Avalon Ballroom, tra il gennaio e il marzo del 1969. Chiedono al loro mecenate e tecnico del suono, Owsley "Bear" Stanley (il quale molto prima di famose serie tv era anche un chimico clandestino, produttore di LSD, nominato Acid King dai media) di registrare con il meglio che si potesse avere, in termini di tecniche musicali, delle esibizioni live: Bear con l’aiuto di un altro ingegnere del suono, Ron Wickersham, perfezionerà le tecniche di registrazione con un nuovo tipo di microfono, e nuovi tipi di preamplificatori, tanto che Bear e Wickersham fondarono una società, la Alembic, che diventerà regina di questi componenti e in seguito meravigliosa liuteria per chitarre raffinatissime. Con il bene placido della Warner Bros., tre date vennero registrate: un concerto il 26 gennaio all’Avalon Ballroom e 4 concerti consecutivi il 27 Febbraio e il 2 Marzo 1969 al Fillmore West. In queste serate, la magia che scorreva tra Jerry Garcia (chitarra solista e voce), Bob Wier (chitarra ritmica e voce), Phil Lesh (basso), Ron “Pigpen” McKernan (Hammond e voce), le due batterie di Bill Kreutzmann e Mickey Hart e le tastiere di Tom Constanten è unica e il tutto si riversa in questo doppio LP live, leggendario, Live\Dead. In copertina, il disegno di Bob Thomas gioca sull’ossimoro: una divinità femminile esce trionfante da una bara con uno stendardo, sullo sfondo la scritta psichedelica Live, a giocare sul fatto che sia un disco dal vivo, con nel retro la scritta Dead in caratteri colorati dalla bandiera a stelle a strisce. La scaletta, di appena 7 pezzi, esprime al meglio la creatività del gruppo, e quasi pone un limite creativo al rock psichedelico, come a dire che probabilmente più di così non ci si può spingere: la dimostrazione più sensazionale non può che essere ciò che i nostri combinano a Dark Star, un brano che appariva nel loro primo omonimo disco del 1967. Con il testo del paroliere, e membro ufficiale della band, Robert Hunter, nella versione originale dura 2 minuti, qui è il trampolino di lancio per un viaggio intergalattico di 23 minuti nel suono, nel pulviscolo sonoro spaziale, con gli intrecci delle chitarre di Weir e quella liquida, indimenticabile, di Garcia, rappresentazione unica e inarrivabile di un’idea musicale. Diventerà l’inno dei fan, e arriverà a versioni ancora più intergalattiche: record di sempre i 43 minuti del concerto del Dicembre 1973 a Cleveland, quanto la Sesta Sinfonia di Beethoven. Il ritmo si assesta nella ripresa, frizzante, di Saint Stephen, dedicata alla storia e al martirio del primo Santo cristiano, ma è solo una parentesi, che sfocia nella clamorosa The Eleven: nominata così per l’inusuale e complesso tempo ritmico di 11\8, è una jam che sa di jazz, acid rock, dove il suono arriva a zampate caracollanti. Arriva poi il turno dell’immersione nel blues, che sarà per tutta la carriera della band uno dei pilastri fondamentali: Pigpen ruggisce come un leone nella ripresa di Turn On Your Lovelight, classico della Peacock Record scritto da Don Robey, che qui svetta oltre i 15 minuti, e diventerà anch’esso un classico dei concerti con Pigpen in formazione (sfortunatamente morirà pochi anni dopo, nel 1972, per una rara malattia autoimmune). Ma c’è ancora modo di addentrarsi ancora più a fondo nelle profondità del blues: la band pesca un pezzo del Reverendo Gary Davis, dei primi anni ‘30, tra lo spiritual e il sermone accusatore, Death Don’y Have No Mercy, che viene rallentata all’inverosimile, e cresce con gli interventi magici e da brividi della chitarra di Garcia e dell’organo Hammond di Pigpen, con la sua vocalità calda e ruvida che regala una interpretazione indimenticabile. Con un salto inaspettato, Constanten mette in musica il suo diploma conseguito con Karl Heinz Stockhausen: Feedback è già elettronica, in un susseguirsi di effetti stranianti ed evocativi degli stati psicofisici alterati, con ruggiti elettrici che sembrano spilli di luce in un mare caotico. Alla fine, come un saluto tra amici, il traditional And We Bid You Goodnight saluta un momento storico della storia del rock, il primo e uno dei più alti momenti di improvvisazione musicale, che in quel periodo stava iniziando a diffondersi nel rock. Michelangelo Antonioni prenderà uno spezzone di qualche minuti di Dark Star per una delle scene cult di Zabriskie Point. Nella sterminata e inimitabile discografia Dead, esistono due perle assolute: nel 2005 un box set, limitato a 10 mila copie, Fillmore West 1969: The Complete Recordings, in 10 cd raccoglie in serie le 4 esibizioni al Fillmore West, con alcune perle, tipo una Turn On Your Lovelight da 19 minuti e una cover mozzafiato di Hey Jude dei Beatles. Nello stesso anno verrà distribuita anche una versione 3 cd che raccoglie alcune delle esibizioni di quelle serate magiche, tra cui due jam al limite della fantascienza, That's It For The Other One da 23:30 e una Jam da 25. Difficile trovare miglior rappresentazione della Haight Ashbury che non sia questo disco, per tutto quello che contiene, tranne forse un diretto impegno politico, che verrà sviluppato con più incisività dai Jefferson Airplane. Uno dei dischi da avere.

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