Anthony Williams - Spring (1966)

La grande musica si fa con grandi musicisti. Si può avere successo, si può anche fare per un periodo la storia senza essere bravi musicisti, ed è capitato molte volte nella storia della musica popolare. Però per rimanere nel tempo, in senso musicale, si deve saper suonare. Il tipo di oggi oltre alla maestria aveva un talento smisurato, anche in maniera divertente per quanto era mingherlino fisicamente, e ha segnato il battito musicale per decenni. Quando Miles Davis lo vide, erano gli inizi degli anni ‘60, non poteva credere ai suoi occhi: un 17enne che non solo padroneggiava la tecnica a quel modo ma aveva quella scintilla di talento che un tipo sveglio come Davis non poteva non notare. Anthony Williams, per tutti Tony, era di Chicago ma crebbe a Boston. Di famiglia di musicisti, il padre lo presenta prima a Sam Rivers, che lo mette a suonare a 13 anni nel suo gruppo e poi a Jackie McLean, quando ha solo 16 anni, dove suona nel grandioso One Step Beyond. È il 1963 quando Miles Davis, che sta creando il suo secondo quintetto, lo chiama, con un certo scandalo. Ma Davis dirà di Williams (che lo seguirà per tutto il periodo del quintetto e anche oltre, fino all’inizio della rivoluzione di In A Silent Way del 1969): “Williams was the center that the group's sound revolved around”. Tecnicamente gigantesco, fenomeno di agilità, elasticità e velocità ma uno di quei casi in cui la perizia tecnica era perfettamente e squisitamente legata alle necessità musicali, non della sola parte di batteria, ma di tutti gli attori coinvolti, tanto che nei decenni successivi e non solo per la fama del suo ingresso nel secondo quintetto davisiano, fu uno dei più accreditati e ricercati sessionisti della musica jazz. Quello che Williams introduce, portando all’evoluzione il lavoro di suoi grandi punti di riferimento come Max Roach e soprattutto Elvin Bishop, è l’uso della poliritmia e delle strutture della musica rock in quella jazz. Esordisce come solista nel 1964 per la Blue Note, con Life Time, in formazione con Sam Rivers, il vibrafonista Bobby Hutcherson, il suo compagno davisiano Herbie Hancock al piano, i grandi bassisti Gary Peacock, che suonava con Art Blakey e Richard Davis, che pochi anni dopo diventerà famosissimo per il suo contribuito ad Astral Week di Van Morrison. Lifetime è già un grande disco, ma il meglio di sè Williams lo dà per il quintetto davisiano: capolavori come Seven Steps To Heaven, My Funny Valentine, E.S.P. tra gli altri. Se in quel quintetto sviluppa al meglio la cerniera filosofica e musicale che Davis cercava tra la fine del bop, il jazz modale e quello che inizierà a fare verso la fine del decennio, le contaminazioni da altri generi, come solista Williams inizia a esplorare l’avanguardia, ma senza sconfinare nelle dinamiche della “new thing”, totalmente avversa a Davis, che non gli avrebbe perdonato tale affronto. Il discorso si condensa in sessioni del 1965, per la leggendaria Blue Note, dirette da quell’altro genio del suono che fu l’ingegnere e produttore Rudy Van Gelder. Spring esce nel 1966 e vede in formazione con Williams al sax tenore, alternandosi, Wayne Shorter con Sam Rivers (che suona anche il flauto), mentre al piano ritroviamo Herbie Hancock e al basso Gary Peacock. L’ingresso di Shorter anche qui è determinante nel cambio di stile rispetto al primo album. In scaletta 5 composizioni autografe di Williams, tra cui spiccano Echo, un brano per sola batteria che esprime la tecnica monumentale del musicista, la melodiosa e bellissima Love Song, il battito emotivo che è Extras, il brano di apertura, o la chiusura, più swingata, di Tee, con il piano di Hancock a primeggiare e il fraseggio-sfida dei due sax, in momenti davvero riuscitissimi come in From Before. È un disco difficile da catalogare, derivata certamente dall'hard bop e dalla musica modale dei primi anni sessanta, piena di cambi di marcia, libera e fiera, capace di svolte inaspettate, che però diventano immediatamente una visione condivisa. Williams aspetterà tre anni per il nuovo lavoro da band leader, quando pubblicherà il suo disco di debutto, addirittura un doppio, della sua nuova creatura, The Tony Williams Lifetime (1969): con il chitarrista inglese John McLaughlin e l’organista Larry Young, è subito considerato uno dei pilastri della rivoluzione della fusion, di cui lui sarà uno dei più geniali creatori, e regala al jazz uno dei primi capolavori jazz rock nella leggendaria Via The Spectrum Road, dall’inusuale tempo di 11\8. La sua carriera continuerà nel rispetto e nell’ammirazione totale dei colleghi, non solo jazz ma anche rock, che prenderanno a piene mani le sue idee degli anni ‘70, dove ricordo suonerà in Trio con Hank Hood e Ron Carter, con il cui basso formerà probabilmente la linea ritmica più grandiosa della storia del jazz, con McCoy Tyner, in Trio Of Doom con Jaco Pastorius e John McLaughlin e l’ultimo progetto, Arcana con Bill Laswell e Derek Bailey. Morirà, a soli 51 anni, a San Francisco nel 1997 per le complicazioni di un’intervento alla cistifellea. Rimane, e rimarrà per sempre, uno dei più grandi interpreti e innovatori dello strumento, un gigante dal fisico gracile ma dall’impeto, e dalla tecnica, sconfinata.

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