The Rolling Stones - Hackney Diamonds (2023)

di Giovanni Davoli

La maggior parte di coloro che leggeranno questa recensione non erano nemmeno nati quando i Rolling Stones cominciarono la loro carriera (1962) e pubblicarono il loro primo album (1964). Quando cominciarono, il rock come genere non era ancora definito. Le pietre rotolanti, partendo dal blues e infilandoci un po’ di country e di rock’n roll, ebbero un ruolo essenziale nel fondare il rock, nutrirlo, renderlo grande e popolare. Seppero poi sopravvivere, fin dal 1978 (vedi il nostro Back in Time su “Some Girls”) quando il “classic rock” entrò in crisi, cavalcando e incorporando nel loro “rock’n roll” (come Keith Richards ha sempre voluto chiamarlo) le varie mode che passavano per le classifiche. Fino ad arrendersi di fronte a rap e hip-hop (“gente che mi urla addosso”, cit. Keith).

Tuttavia, 60 anni dopo i Rolling Stones sono ancora qui tra di noi e danno alle stampe il loro 24mo (o 26mo, a seconda di cosa si conta) album in studio. Parte la batteria, con Mick Jagger che scandisce il ritmo (one-two…one-two.three-four) ed entra subito un bel riffone di chitarra: “questi sono i Rolling Stones” immagino che lo potrebbero dire tutti, vecchi e bambini, mentre Mick attacca a cantare. Ed eccovi servito il singolo, Angry, con tanto di video con strafica hollywoodiana. Di sicuro ti si attacca addosso, ma non saprei dire quanto ancora emozioni coloro che, come me, di riffoni così ne hanno già sentiti tanti, anzi ci hanno costruito sopra una vita da professionisti dell’air guitar.

Non c’è più Charlie Watts, o meglio compare solo in due tracce, Mess It Up e Live By The Sword, evidentemente registrate all’epoca. Ma Steve Jordan non è esattamente da meno, anzi. Ascoltatelo su Get Close: è lui a dettare il groove, prevalendo sulle solite chitarre rolingstoneiane e risultando decisivo in una delle tracce più coinvolgenti del disco.

Ma “Hackney Diamonds” non aspira a essere nulla più che un ulteriore disco classico degli Stones. Non ci sono sorprese. Ci sono la ballatona romantica di Jagger (Depending on You), il rock’n roll tirato e sguaiato (Bite My Head Off con Paul Mc Cartney al basso), la ballatona country con un sacco di slide (Dreamy Skies), i coretti r&b (Mess It Up), la canzoncina strappabudella cantata da Keith (Tell Me Straight), il bluesone iperprodotto e apocalittico (Sweet Sounds of Heaven con Lady Gaga e Stevie Wonder), la cover acustica di un vecchio blues (Rolling Stone Blues, la canzone di Muddy Waters che diede il nome alla band).

Il tutto però prodotto dal trentenne Andrew Watt, che ha pure imbracciato il basso su alcune tracce e contribuito a scrivere le prime tre tracce, insieme ai soliti Jagger-Richards. Watt è un produttore che va per la maggiore e che trovate oggi dappertutto. È riuscito a far suonare come “rock” persino Miley Cyrus e a dare nuova vita ad altri dinosauri come Iggy Pop e Ozzy Osbourne. Che dire? Missione riuscita anche con i Rolling: tutti promossi a pieni voti, lui, la band ottuagenaria, il disco.

Tuttavia, una domanda inquietante sorge spontanea mentre si ascolta “Hackney Diamonds” e si nota, sottile, quel sound “rock ripulito” che caratterizza Watt: non è che qualcuno, ascoltando l’attacco di Angry, dirà “questi sono i Maneskin”? E capisci che a questo si puntava.

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