Embryo - Rocksession (1973)
Tra le meraviglie del rock cosmico tedesco, vorrei sottolineare un filone particolare, che certi filologi del rock chiamano Munich Style, caratterizzato dalla preminente, e all’epoca, innovativa commistione con il jazz nel loro rock, prendendo al balzo la palla scagliata in quella direzione da Miles Davis sin da In A Silent Way (1969). È definito Munich Style perchè furono i locali di quella città a essere teatro delle nuove sperimentazioni, e non come si può pensare perchè le band fossero tutte bavaresi. Anzi, proprio in questo filone in Germania furono attivi personaggi nemmeno tedeschi. Per fare una breve carrellata, tutto inizia con gli Xhol Caravan, che si fondano verso fine anni’60 per suonare musica soul con le cover di artisti americani, per poi virare con più decisione verso un suono jazz elettrico che fece breccia in molte band, oscure ai più e del tutto dimenticate, ma che grazie alle piattaforme di musica digitale regalano musica eccelsa e facilmente reperibile alla fruizione, a differenza dei loro dischi in vinile, i cui originali sono perle rare (e costosissime) per i collezionisti. Alcuni nomi e storie, per dare qualche spunto: gli Association P.A. di Pierre Courbois, batterista olandese, dal suono levigato ed elegante (meraviglioso Earwax del 1972, loro secondo lavoro); i Wallerstein, che prendono il nome dal generale Albrecht von Wallenstein, eroe della Guerra dei Trent’anni (1618-1648, la più lunga guerra combattuta sul suolo europeo a tutt’oggi), dal suono potente e sofisticato (album di riferimento, Blitzkrieg del 1972, un gioiello); i Sunbirds, supergruppo fondato dal noto batterista jazz Klaus Weiss, che forma un ensemble davvero internazionale con Jimmy Woode (bassista dagli Usa), Ferdinand Povel (sassofonista dall’Olanda), Fritz Pauer (pianista dall’Austria), Philip Catherine (chitarrista dal Belgio) e Juan Romero (percussionista, che non so dove è nato, ma l’internazionalità funziona lo stesso) con il loro fondamentale e meraviglioso omonimo album del 1972; i McChurch Soundroom, svizzeri, che presero il nome dal loro fondatore, Sandro Chiesa (da cui McChurch), con il loro istrionico folk synth rock, in un misto jazz con i Jethro Tull e il suono hard noise dei Nosferatu (album di riferimento Delusion, dalla macabra copertina, 1971). Ma la storia di oggi la dedico ad un altro gruppo storico di quel filone, la cui storia è per me davvero interessante, come del resto la loro musica. Tutto inizia addirittura verso la fine degli anni ‘50 a Hof, una cittadina al confine con l’allora Cecoslovacchia, dove due ragazzi, adolescenti, Christian Burchard e Dieter Serfas, vanno a scuola di musica insieme. Nasce lì un seme, soprattutto in Burchard, che lo porterà a diplomarsi e a suonare per anni come musicista sessionista sia in esibizioni dal vivo sia in studio. È verso la fine degli anni ‘60, visto il fervore della musica tedesca, che fondano una loro band, a cui danno il nome di Embryo. Burchand è un fenomenale percussionista (batterista, il dulcimer con i martelli, tastierista, vibrafonista), lo è anche Serfas (ma meno dotato e istronico) e il primo che si accoda è Edgar Hofmann, sassofonista e flautista. Su questo pilastro, e per decenni (fino al 2016 quando Burchard ebbe un infarto che lo tolse dalle scene, con la figlia Marja che ne prende il ruolo di leader) la band pubblicherà decine di dischi, alternando, secondo il loro sito ufficiale, oltre 400 musicisti, nell’esplorazione del loro jazz rock intenso e suggestivo. Gli album della prima metà degli anni ‘70 sono tutti formidabili. Tra l’altro, ebbero un curioso record: messi sotto contratto per la United Artist, che fu una casa discografica molto attiva verso il krautrock, quando presentarono il materiale per il disco di oggi, fu inizialmente scartato. Gli Embryo non cedettero e divisero i brani scritti in tre dischi, uno Father Son And Holy Ghosts (1971) per la UA, altri due Steig Aus e quello che ho scelto per oggi, Rocksession (1973) per la Brain\Metronome, aggiungendo nel frattempo un altro lavoro, anch’esso stupendo, We Keep On (1973) per la BASF, divenendo una delle pochissime band a pubblicare con tre diverse etichette nello stesso biennio nella storia della musica. Rocksession è un gioiello della commistione jazz-rock di quel tempo: la formazione è composta oltre che da Burchard, Hofmann e Serfas, da Mal Waldron (piano), Roman Bunka (chitarra e oud, un liuto arabo), Uve Müllrich (basso), Michael Wehmeyer (tastiere, organo Hammond), Chris Karrer (seconda chitarra), Lothar Stahl (marimba, batteria) e Jens Polheide (basso, flauto). Tra le varie registrazioni di quel tempo, Sigi Schwab sostituì in molti brani Roman Bunka alla chitarra. Rocksession è composto da 4 brani: A Place To Go è meravigliosamente influenzato dall'oriente con marimbe, tastiere, chitarra elettrica, percussioni. Entrances, la traccia più lunga, dall’inizio jazz funk irresistibile, è dominata dall'eccellente chitarra jazz di Schwab a cui si aggiunge l’organo Hammond di Wehmeyer. Anche il lavoro della sezione ritmica è semplicemente fantastico: il brano è fortemente più jazz che rock e si sente il contributo del pianista jazz Mal Waldron, autore nei crediti di ben tre delle quattro tracce. Nell'ultimo terzo del brano c'è un ottimo assolo di sax di Hofmann. Questo è sicuramente il momento clou dell'album. Il secondo lato del disco è quello più rilassante e slanciato ed inizia con Warm Canto, un brano molto morbido e pastoso suonato con l’intreccio di vibrafono, tastiere, violino e percussioni più chitarra elettrica e pianoforte di Waldron nella sua seconda metà, un brano dalle due facce, una prima parte delicata e una seconda più incisiva, che rapisce per la sofisticata costruzione musicale. Anche l'ultimo Dirge inizia con un'atmosfera altamente slanciata con vibrazioni, chitarra e poi violino e pianoforte elettronico. Come in tutto l'album, il lavoro di basso e batteria diventerà proverbiale, una delle esecuzioni migliori di tutto il periodo kosmic rock. Rimane un esempio dell’abilità strumentale di quella generazione, e occasione per sentire musica nuova e dimenticata. Dimenticata senza davvero un perchè, visto certe cose che vanno per la maggiore oggi.
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