Beirut - Hadsel (2023)

di Piergiuseppe Lippolis

Da Gallipoli a Hadsel corrono più di tremila chilometri. Dal tacco dello Stivale a una località immersa in un’isola poco più a nord del circolo polare artico, nel mar di Norvegia, ballano anche quattro anni: quelli di cui Zachary Francis Condon e la sua creatura, i Beirut, hanno avuto bisogno per compiere il viaggio, attraversando pure una pandemia.

Beirut come la capitale del Libano, Beirut come il crocevia di culture e suoni e, di riflesso, manifesto artistico di una proposta musicale che dei suoni del mondo si nutre. La prima tappa del viaggio era stata “Gulag Orkestar”, nel 2006, che intendeva omaggiare l’Europa dell’Est, l’ultima quel “Gallipoli” per il quale Condon si era spinto fino al nostro profondo Sud, nel 2019. A novembre, e forse non è un caso, è arrivato il seguito “Gallipoli”, ma di quelle atmosfere rimane poco: l’esperienza musicale di “Hadsel” è diversa per climi e umori, ma conserva gli stilemi fondamentali di una proposta artistica ormai ben definita.

Condon ha scritto e suonato “Hadsel” praticamente in solitaria, nella piccola isola di Hadseløya, dove ha conosciuto un collezionista e appassionato di organi di nome Oddvar, il quale gli ha concesso di entrare nella Hadselkirke, una piccola chiesa del luogo con struttura ottagonale e risalente agli inizi del 1800. Hadselkirke, che ospitava il primo organo da chiesa mai suonato da Condon, sarebbe poi diventata poi l’immagine di copertina del nuovo lavoro firmato Beirut.

Nei suoi mesi in quel di Hadsel, Condon si era procurato, di fatto, uno studio portatile, con tanto di registratore per l’organo della chiesa e modellando le canzoni anche grazie agli arrangiamenti di tromba e ai sintetizzatori modulari. Dopo il suo ritorno a casa, a Berlino, in piena pandemia, ha continuato un lavoro certosino sul materiale sonoro prodotto: baritono ukulele, corno francese, tamburi, shaker su vecchie drum machine e percussioni già sviluppate in Norvegia sono stati aggiunti alle trame delicate che vogliono raccontare la bellezza dei luoghi, la natura e la solitudine, gli infiniti crepuscoli e la poesia dei fiordi, le montagne e la neve, con le tempeste e l’aurora boreale a coincidere idealmente con i picchi di intensità del disco.

I brani di “Hadsel” sono dodici, dalla titletrack e le sue melliflue evoluzioni di tromba, al pulsare morbido di Regulatory su cui “Hadsel” si spegne definitivamente. C’è una forte dose di emotività in questo nuovo lavoro firmato Beirut: Condon, durante le ultime sessioni di registrazione nel 2019, fu costretto a fermarsi per problemi alla gola e temeva che non sarebbe mai più riuscito a sostenere un live. È di quest’esperienza e dei luoghi che il disco si nutre: un periodo di isolamento e ritrovamento, di scoperta e rinascita per catturare appieno il senso di spazi e tempi e tradurli in musica, con una grazia che, forse, non sembrava più ripetibile e che somiglia molto a una manifestazione religiosa o, semplicemente, spirituale.

Ecco, allora, anche il significato di brani come Arctic Forest e la sua suggestiva bossa nova calata nel circolo polare artico, o Spillhaugen, che conserva ancora qualche traccia di quel beat bossanova, ma che cerca idee più vibranti e rarefatte anche grazie all’ingresso del phaser, con un vago effetto nostalgia che non è del tutto estraneo a Baion e So Many Plans, due dei passaggi più belli dell’intero disco. Il primo, in cui emerge distintamente una lieve atmosfera folk sospesa nell’inverno artico, ma anche qualche forma di tiepido sollievo nei raggi solari che filtrano tra alberi e tende, il secondo con un tono più grave e contemplativo, entrambi accomunati da ottime soluzioni compositive che riescono a sintetizzare al meglio la maggior parte delle idee e delle pulsioni che sono alla base di “Hadsel”.

Buone, però, sono le sensazioni che arrivano anche nella seconda metà del disco, con Island Life e il suo delicato romanticismo, in cui l’ukulele disegna un incedere cullato dalle traiettorie d’organo, con un umore simile a quello di Süddeutsches Ton-Bild-Studio, il brano più lungo del lotto, e il suo suono più sintetico, ma che non appare fuori contesto. Se, invece, January 18th insiste sul contrasto fra organo e synth anni Settanta, The Tern è il brano in cui un ruolo più centrale è assunto dalla voce, prima dell’atterraggio morbido della già citata Regulatory.

I tasselli che completano “Hadsel” sono uno strumentale d’organo (Melbu) e Stokmarknes, quasi un racconto tragico proveniente dal villaggio di pescatori a cui deve il titolo, aggiungendo ulteriori sfumature a una narrazione che sa esplorare sentimenti cupi, nostalgia, speranza e ottimismo, quasi a voler scandagliare l’intero spettro degli stati d’animo di un essere umano.

“Hadsel” ci consegna una delle migliori versioni di Beirut e dei Beirut da quando li conosciamo. La forza del disco risiede, in primo luogo, nella sua ispirazione: gli eventi e il contesto sembrano aver giocato un ruolo prezioso per Condon, che ha trovato pace e idee in una dimensione solitaria, nella Norvegia più remota e incontaminata. La gestazione lunga, poi, ha permesso a questa somma di intuizioni di tradursi in un’opera completa, che affascina col suo incedere lento e sospeso e con le sue traiettorie che rimangono ascrivibili al folk, anche se alimentate e impreziosite da suggestioni di altro tipo.

Commenti

E T I C H E T T E

Mostra di più