Alan Sorrenti - Aria (1972)

Se per diventare Figlio delle stelle deve attendere il 1977, Alan Sorrenti all’esordio è un alieno. Chi altri ha il coraggio di esordire con un disco che è un incrocio tra sperimentalismo vocale, folk, jazz, una venatura di psichedelia? Per giunta cantato in italiano. Certo la label Harvest alla ricerca di novità aiuta, come fare la spola dalla Gran Bretagna (il padre di Alan è napoletano, la madre gallese), dove il ragazzo è esposto al progressismo rock – più che al progressive tout court – come risultato delle correnti innovatrici sociali e musicali più disparate.

L’Italia è un Paese in ritardo su tutto – in modo endemico dal Rinascimento in poi – e all’inizio dei ’70s il Festival di Sanremo è “la” cartina di tornasole che determina le sorti del mercato discografico popolare e dunque dei grandi numeri relativi. Ma ci sono sacche di resistenza: si cominciano a organizzare i festival pop alternativi, nascono le radio libere, i giornali musicali si interessano all’underground, i negozi di dischi cominciano a importare deflagranti novità dall’estero che mettono in mostra altre doti rispetto, o non solo, al “bel canto” in formato “leggera”. Insomma, l’Italia canzonettara deve affrontare le avvisaglie del cambiamento. Che permettono ad Alan Sorrenti, in modo inaspettato, di entrare con prepotenza nella classifica dei singoli più venduti grazie a Vorrei incontrarti, il brano più accessibile di Aria. Non per questo meno meritevole rispetto al resto dell’album, nel quale si incastona in modo naturale. Una carezzevole nenia dettata da chitarra acustica, fisarmonica, e dalla voce suadente di Sorrenti, che quando imbriglia la vocalità e tiene la barra dritta sulla dolcezza ha il potere di ammaliare (anche le orecchie meno anarcoidi), come il canto di una creatura mitologica.

Il pezzo forte di Aria, il disco, è però l’omonima suite che copre l’intero primo lato. Una lunga metafora, una prolungata dichiarazione d’amore, un inno stralunato ad Aria: una donna, o la sua proiezione, che prende le sembianze di elemento, fondamentale per la vita come lo è l’amore, platonico e/o fisico che sia: «Aria, tu mi apri la porta (…) / e nelle stanze del tuo nido / io mi sto addentrando / (…) / Aria, il mio corpo sul tuo corpo / si muove lentamente / Aria, il mio corpo sul tuo corpo / Sprofonda dolcemente / (…) / Sono entrato nel tuo corpo, sono io l’universo / (…) / Nel tuo fiume sto scivolando / Aria, sto impazzendo». Una canzone d’amore che si consuma in un viaggio sul confine tra sogno e incubo, ermetico o espressionista nell’andirivieni lirico, vibrante degli slanci vocali di Sorrenti che si intrecciano come rampicanti agli affondi di violino di Jean-Luc Ponty, o si insinuano sfuggenti tra i misurati giochi percussivi di Tony Esposito, o le chitarre acustiche di Vittorio Nazzario e dello stesso cantante.

Il lato B è l’altra faccia di un mondo regolato da identiche leggi. La mia mente galleggia tra i flutti del mare vasto e profondo della ragione, blandendone i limiti che stanno sul confine tra la cosiddetta normalità e la follia: «La mia mente, la mia mente è piena di cose / (…) arrugginite e sacre / (…) Ed io lotto, ed io le incateno / Ed io le ammucchio, ed io le creo / Questa cassaforte, di vecchie antiche corazze / questa mente nuota, precipita / in una violenta cascata». Un fiume tranquillo l’antidoto alla paranoia del brano precedente: «Un fiume tranquillo che mi salva da una violenta cascata».

Il disco di esordio di Sorrenti è una suadente dissertazione su ciò che si può osare con la voce, sconfinando nell’insolito senza generare spaventi. Va lodato per questo, perché affascina usando un approccio poco convenzionale eppure comprensibile a tutti coloro che hanno la capacità di tenere allertati i sensi. E non solo: perché ha prediletto l’italiano quando l’inglese si addice di più, foneticamente, agli sfrenati arzigogoli vocali che il cantante sprigiona abilmente e che hanno in Tim Buckley, padre di Jeff, il più palese dei riferimenti. Ma anche Peter Hammill. Qualcosa persino di Robert Wyatt. Un disco dall’appeal internazionale ancor prima di PFM, BMS, Le Orme – registrato tra Parigi, Nizza e Roma con l’ausilio di personale francese, inglese, italiano – che non si limita a stupire per effetto della spiritualità carismatica che disperde (nell’aria) la voce di Sorrenti, ma nella musica – tra jazz, folk, cantautorato, elettronica mista ad acustico che oggi fa gridare al miracolo ma qui è già ben presente – trova l’imprescindibile corporeità della quale necessita il duopolio spirituale-materico, anima-corpo, musica(emozione)-concetto(ragione).

Un lavoro che meritava più fortuna, Aria, benché sotto l’aspetto delle vendite non abbia completamente fallito. L’anno dopo Sorrenti gli darà un seguito senza tradire la sua “missione”, ma Come un vecchio incensiere all’alba di un villaggio deserto – dall’omonima suite più estrema di quella dell’esordio – darà frutti (commerciali) anche più aspri. Poi l’artista napoletano si farà conquistare dal mondo rutilante del pop da classifica, che avvicinerà anno dopo anno, fino a cavalcarlo con totale padronanza grazie a Figli delle stelle, l’hit che vale una carriera. O meglio, una seconda carriera dalla verginità riacquista. La prima – confinata tra il 1972 e il 1974: anche Alan Sorrenti merita rispetto – resta una medaglia preziosa che nessuno potrà strappargli dal petto.

di Andrea C. Soncini


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