Sufjan Stevens – Javelin (2023)
di Monica Gullini
È difficile, se non impossibile, parlare di Javelin, il nuovo disco di Sufjan Stevens in uscita il 6 ottobre, senza pensare a Carrie and Lowell, pietra miliare del musicista statunitense, pubblicata nel 2015. Ascoltandolo sono tornati a galla un dolore indescrivibile e la vana e disperata ricerca dell’amore. All’epoca ero solo una ragazza e avevo perso le due cose più preziose che possedevo. Mettetevi comodi, perché non ho la minima intenzione di essere breve.
Sufjan Stevens è un musicista che non può essere paragonato a nessun altro se non a sé stesso. È un unicum nel suo genere, definirlo folksinger è riduttivo. Ha fatto largo uso dell’elettronica, ha composto musica classica, scritto movimenti, suonato il banjo e sussurrato con la morte nel cuore. Ha fondato persino una sua etichetta, Asthmatic Kitty, in onore di una gatta trovatella con problemi respiratori. E possiede una caratteristica, che pochissimi cantautori della sua generazione hanno: è un musicista corale. Un’umanità che vive, prega, sogna e si muove all’unisono: il suo mondo è racchiuso tutto qui e da qui avanza muovendosi per mano. Traspare sin dagli inizi, da quel meraviglioso A Sun Came, passando per gli Stati che si era prefissato di raccontare, Come on! Feel the Illinois e Michigan.
La coralità è il tema preponderante dell’album sin dalla traccia iniziale, Goodbye evergreen: un accenno di piano, una voce carezzevole e nostalgica al tempo stesso (“Addio ragazzo eterno / sai che ti amo“) descrive in maniera poetica il sentimento più forte che muove tutto l’Universo, toccando quelle corde che solo il musicista statunitense sa far vibrare. Lo stesso Sufjan “è cresciuto come un cancro” nel cuore dell’amato e ripercorre in maniera sognante una storia che sembra purtroppo appartenere al passato (lo definisce “nemico”, chiede addirittura di non essere punito). Il brano di apertura parte come un bisbiglio ed esplode nel finale grazie a una molteplicità di voci, fiati e suoni elettronici, grazie agli echi folk di A winner needs a Wand e alle suggestioni celesti e sinfoniche di Planetarium (album del 2017 scritto a otto mani da lui, Bryce Dessner, James McAlister e Nico Muhly).
A un orecchio attento, però, non può sfuggire un particolare: l’Amore tanto decantato negli album precedenti (piccolo inciso: in Carrie and Lowell emerge un sentimento vissuto in maniera personale e come tale viene intimamente cantato, senza sovrastruttura alcuna) e dipinto in maniera eterea qui assume dei connotati diversi. In Goodbye evergreen c’è ancora molto della vena poetica del cantautore statunitense, l’Amore sognante e inafferrabile, così come in A running start, nel suo delicato incipit di banjo che richiama molto le atmosfere oniriche di Carrie and Lowell: c’è la natura che accoglie e abbraccia, un lago sulle cui sponde sospirare per un bacio ( l’avvicinare le labbra a quelle di un amante è uno dei desideri più forti di tutta la poetica stevensiana), la luna d’argento e due anime che volano eteree sopra una brezza gentile, mentre nel finale voci femminili disegnano un’armonia perfetta che si dissolve nel brano seguente.
La guitalita che introduce Will anybody ever loves me, secondo singolo estratto, chiede, supplica l’Amore incondizionato. Sembra quasi di vedere il giovane Stevens ai tempi di The Predatory Wasp of the Palisades Is out to get us!, infatuato e convinto che l’Amore sarebbe tornato. A distanza di quasi vent’anni lui è ancora lì, da solo, ad aspettare. E canta, rassegnato, disperato quasi, chiedendo se qualcuno lo amerà mai, “per buone ragioni / senza rancore, non per sport? /In ogni stagione / giura fedeltà al mio cuore in fiamme” con un tono brillante e accorato, assemblando giri di piano, archi e un trio di voci come un fuoco pronto a scoppiare. “Legami all’ultimo paletto di legno / Brucia il mio corpo, celebra l’ultimo bagliore / lava via i peccati estivi che ho commesso / guardami andare alla deriva e guardami lottare, lasciami andare“, supplica Sufjan più volte: nel suo animo il desiderio è così forte da non riuscire a dominarlo e al tempo stesso smorza l’idea romantica dell’Amore, fino ad annullarla totalmente.
La quarta traccia, Everything that rises, è una invocazione: Stevens chiede di essere portato in un posto “più alto”, dimenticando tutto ciò che era stato prima. È una sorta di rinascita, la riscoperta di un mondo interiore in cui la chitarra e gli archi lo conducono in una dimensione sovrannaturale. Invoca Gesù, gli rivolge la stessa supplica, mentre voci femminili si uniscono alla sua richiesta. Ecco comparire un altro dei temi fondamentali della poetica stevensiana, la fede sempre presente nei suoi testi, fede che a volte delude, altre è un balsamo che lenisce tutti i mali: impossibile non pensare a Casimir Pulaski Day (Martedì sera allo studio biblico / alziamo le mani e preghiamo sul tuo corpo / Ma non succede mai nulla“), alla bellissima John My Beloved (“Gesù, ho bisogno di te, sii vicino a me, vieni a proteggermi / Dai fossili che mi cadono in testa“), impossibile non pensare alla poesia C’è molto nel mondo dell’ultimo, grande bardo del Novecento, Dylan Thomas. I versi del poeta gallese sembrano complementari a quelli del cantautore canadese: c’è sì qualcosa di più alto, ma inevitabilmente fiorisce per perire, con la natura sullo sfondo incapace di impedire questo declino; sia in Stevens che in Thomas possiamo trovare quell’ebbrezza di sangue giovanile che stenta a rinunciare a ciò che resta, entrambi sono insofferenti a questo mondo e alle sue dinamiche. A differenza del passato, ora Sufjan non esita a manifestarlo, usa parole più dirette, si avvale molto meno delle perifrasi. La spericolatezza se ne va, a favore di tutto ciò che sorge, che finalmente converge.
Ecco la chitarra a rendere Genuflecting Ghost uno splendido madrigale (impossibile non pensare alla stessa grazia di Corpus Christi Carol del compianto Jeff Buckley) e le voci femminili a dipingere uno splendido quadro all’interno del quale il fantasma altri non è che quello dell’Amor perduto, al quale Sufjan chiede di offrire in sacrificio sé stesso affinché possa tornare a baciare di nuovo. È una preghiera scandita da leggeri colpi di grancassa e orientata alla catastrofe: ecco tornare il lessico più crudo, meno perifrastico. Ripete la sua invocazione fino alla fine, in un’esplosione di suoni sintetizzati e rarefatti, che richiamano il finale di Death with dignity, brano di apertura di Carrie and Lowell.
Una ninna nanna flautata in puro stile Seven Swans è My Red Little Fox, affidata alla brezza, ai cori leggiadri di splendide fanciulle e ai rintocchi di uno xilofono che si rincorre; minimale è invece il primo singolo estratto, So you are tired, molto simile a quella Mystery of love regalata a Luca Guadagnino. “Stai respirando il disastro“, canta disilluso il musicista: la storia è giunta al capolinea, il suo amante si è stancato di lui. “Ero un uomo indivisibile / quando tutto il resto era in pezzi“: sembra spogliarsi di tutto il suo sentire Sufjan, ormai non ha più nulla da perdere, sta giocando a carte scoperte mettendo sul piatto anche la sua anima, più nuda che mai. Confessa i suoi limiti per cercare di vincere le sue stesse fragilità, in un crescendo di pianoforte, chitarre, cori e archi, perfetti per dipingere un paradiso instabile e transitorio che invece di offrire serenità e certezze lascia soltanto ombre e domande (“Riposa la testa / torna indietro a tutto ciò che hai avuto nella vita / mentre io ritorno alla morte“).
Javelin, la title track, contiene un altro dei temi cari al musicista statunitense: la morte. Qui però, a differenza del passato (in John My Beloved la fine è vista con estrema dolcezza, invitando l’amato a fare visita ai suoi “fossili scintillanti al sole”), il lessico usato è molto più duro. Non si era mai letto prima nei suoi testi un termine forte come “throw”, “lanciare”; il titolo stesso, Javelin, che a primo ascolto sembrerebbe quasi dolce come un nome di donna, connota un’accezione bellica: “giavellotto” appunto, da scagliare di fronte a sé, forse proprio a quella persona causa di tanti dolori e sofferenze. Il rosso del sangue e il bianco della neve (di nuovo la natura, che assiste incapace di impedire l’inevitabile) sono l’emblema di una vendetta che non tarda a compiersi: Sufjan non era mai arrivato a descrivere tanto nei suoi testi. E a covare sentimenti così tremendi (“è un pensiero terribile / da concepire / e trattenere“, sussurra più volte), tradotti in scene tarantianiane da giardino d’inverno. L’arpeggio di chitarra di Shit Talk (non più le parole sacre di Genuflecting Ghost) simboleggia la resa: non c’è più nulla da offrire, non ci sono più le forze, soltanto un flebile “ti amerò sempre” (“ti amo più di quanto il mondo possa contenere / nella sua testa solitaria e sgangherata / c’è solo un’ombra di me / in un certo senso sono morto“: lo stesso sentimento senza confini di John My Beloved), sovrastato dalla chitarra elettrica dell’amico Dessner e dall’insieme di archi e percussioni sui quali vorticano e crescono i cori femminili, in un finale epico alla Winner needs a Wand. “Non voglio combattere più“, ripete Stevens ancora e ancora, il terribile fantasma che si staglia all’orizzonte a ricordare ciò che è stato lasciato indietro non deve spaventare. “Stringimi forte, prima che cada“: la voce si incrina, va in mille pezzi, annuncia nuovamente la resa, mentre tutto intorno pian piano si cheta e l’eco di una chitarra elettrica in dissolvenza dipinge una cartolina da paesaggio lunare, incorniciata da suoni elettronici rarefatti.
Su There’s a world, cover dell’omonima canzone a chiusura di Harvest di Neil Young, impossibile non canticchiare (perlomeno per me, lo ammetto), “Spirit of my silence I can hear you“, incipit di Death with dignity, brano di apertura di Carrie and Lowell. La versione di Stevens, più intima e delicata, si discosta in maniera siderale dalla versione originale, sinfonica e considerata “esagerata” dallo stesso Young; di nuovo il mondo, con il suo molto che non muore, che sboccia per appassire, all’interno del quale nessuno deve mai smettere di fare la propria parte, Sufjan per primo. Ed è già sulla buona strada: ha suonato e composto quasi interamente da solo i nuovi pezzi di Javelin e assemblato in casa sua i contributi degli amici Dessner e le armonie fornite da Adrienne Maree Brown, Hannah Cohen, Pauline Delassus, Megan Lui e Nedelle Torrisi. Il cammino però è ancora molto lungo: ha scoperto di recente di essere affetto dalla Sindrome di Guillan-Barrè, una malattia autoimmune che provoca parestesia agli arti e nei casi più gravi si estende agli organi interni. Scongiurato il peggio, il musicista statunitense è ora ricoverato in un centro riabilitativo e spera di tornare a camminare nel giro di un anno.
Chi conosce bene Stevens alla fine di Javelin può solo piangere. Per due motivi. In primis, perché non può non ripensare alle emozioni vissute otto anni prima con Carrie and Lowell; in secundis perché si ha l’impressione che Sufjan, pur avendo confezionato un album bellissimo, prezioso e aggraziato, sia profondamente disilluso e infelice. Sembra quasi arreso a qualcosa di più grande, rassegnato all’idea che nel mondo non possa esistere amore anche per lui. “Forse per questo motivo ha messo tra sé e la realizzazione di un album esclusivamente suo tanti anni e le collaborazioni più disparate, o forse è solo l’ennesimo tassello della sua geniale vita artistica. Dev’essere così.”, mi sono detta, cercando una spiegazione. O molto più semplicemente, anche a lui sono state sottratte le due cose più preziose al mondo e l’unico modo per farle tornare a vivere è ricordarle attraverso una foresta di simboli sbiaditi dal tempo.
Del bacio sulla sponda del lago silenzioso non v’è più alcuna traccia.
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