Storia della musica #61 (Ultimo post)

Revival 80’s dall’electroclash al p-funk

Nel Dicembre del 2001 esce una compilation dell’etichetta newyorchese Mogul, specializzata in neoelectro ed electro-pop di nome electroclash: tra gli artisti inclusi vi sono Rubber  Hand, Fischerspooner, A.r.e. Weapons, Morplay e Soviet, vale a dire la  crema di un movimento che attraversa trasversalmente musica,  moda ed arte e che fonde le perversioni glam del synth pop con  una rivisitazione trash dell’estetica punk. Gli A.r.e. Weapons, rielaborazione in chiave trash della lezione sonora dei Suicide, suonano alle gallerie d’arte rotolandosi per terra e provocando risse col pubblico, mentre i Fischerspooner, gruppo che fonde brillantemente il synth pop di New Order, Depeche Mode e Pet  Shop Boys, formato inizialmente da due elementi, Warren  Fisher  e Casey Spooner, è divenuto un collettivo di venti elementi, tra ballerini e vocalist, e allestisce spettacoli multimediali che includono performance teatrali e coreografie.

Per fotografare il movimento sempre la Mogul organizza nell’Ottobre di quell’anno un festival, chiamato Electroclash Festival, al quale partecipano gruppi come Adult., A.r.e. Weapons, Chicks on Speed, Fischerspooner,Ladytron e Peaches, in parte gli stessi che animano il Berliniamsburg, club cittadino dedicato al revival di electro e synth pop. Nel calderone del movimento confluiscono fenomeni musicali diversissimi: da una parte il movimento neo-electro di Detroit che, prendendo le mosse dalla techno minimale di inizio anni ’90 porta avanti il recupero dei suoni analogici dei primi esperimenti con i synth di Kraftwerk e Cybotron. Ne fanno parte produttori attivi dai primi anni ’90 come Drexciya e Dopplereffekt, ma anche gli Adult., duo dedito ad un electro che già vira verso il synth pop, chiamati nel 2001 a remixare “Emerge”, pezzo di Fischerspooner che diventa uno dei primi successi europei dell’electroclash, pubblicato  dalla International Deejay Gigolo Records.

L’etichetta, fondata a Monaco nel 1996 da Dj Hell, si rivela fondamentale per la diffusione e la definizione a livello europeo delle sonorità electro: il che non stupisce, se si considera che da anni la label faceva uscire col suo logo, singoli ed Ep caratterizzati da sonorità electro, (in un momento in cui di anni’80 ancora era vietato parlare), rivelandosi profetica con le uscite di produttori come David Carretta, Dj Naughty e, soprattutto Miss Kittin & The Hacker.

Proprio la Dj-essa/vocalist francese diviene, assieme allo stesso DJ Hell, Dj e vocalist-simbolo del movimento, prima con una serie di singoli ed un disco del 2001 (“The First Album”) in coppia col produttore The Hacker, poi, sempre nel 2001 in società col veterano della house Felix Da Housecat sul disco “Kittenz And Thee Glitz”, in pezzi come “Happy Hour” “How Does It Feel Like” e”Silver Screen (Shower Scene)”: alcuni dei momenti migliori del disco.

Disco che, anche se gioca a citare i suoni dell’electro di moda quell’anno, è in realtà un melting pot dance che poggia su anni di onorata carriera in campo house del suo autore, Felix Da Housecat; un discorso analogo vale anche per gli Swayzak di “Dirty Dancing” (2002), la cui house minimale e sognante a tratti si scurisce, inglobando suggestioni ed elementi sonori dell’electro, per poi allearsi con gli Adult. nell’inno electroclash “I Dance Alone”. Fenomeni trasversali che non ci devono distogliere dal centro europeo della scena che è e resta la Gigolo di Dj Hell, da cui partono tutti gli articoli centrali del genere: il già citato “Emerge”, il “Poney Ep” di Vitalic, l’esordio sul Lp di Fischerspooner “#1” e quella “Sunglasses At Night” di Tiga & Zyntherius che nel 2002 segna l’apice di popolarità del movimento e fa di Tiga uno dei Dj più in vista della dance alternativa internazionale. Più in generale, la centralità della Gigolo durante il boom passeggero dell’electro, è solo uno dei tanti fenomeni musicali legati ad un’area, quella tedesca, che fin dai primi ani ’90 ha cominciato a ritagliarsi un ruolo sempre più significativo a livello internazionale, con etichette come Tresor, Bungalow e Kitty-yo, giusto per citarne alcune e per dare un’idea della varietà di proposte musicali (rispettivamente techno, lounge ed elettronica indie vicina al post rock le proposte negli anni ’90 di queste etichette).

Un processo destinato a decollare definitivamente alle porte del nuovo millennio: se nel 2000 esordisce la berlinese Bpitch Control, etichetta fondata da Ellen Allien che dà il suo contributo al movimento electro dando una rilettura trasversale di quei suoni sia con i dischi usciti a suo nome sia con produttori come Kiki e Smash Tv, la Kitty-yo nel 2000 dà alle stampe l’esordio di Peaches: electro-trash virato rock che fa il paio con “Will Save Us All!”, esordio  del 2000 delle Chicks on Speed, eredi del trash-pop deviato e scalcinato inventato, qualche anno prima, dagli Stereo Total, anch’essi tedeschi ed anch’essi usciti per un’etichetta teutonica, la Bungalow; a completare idealmente una trilogia immaginaria arriva nel 1999 l’esordio omonimo delle Le Tigre, nuovo gruppo dell’ex riot grrrrls ed ex-bikini kill Kathleen Hanna. Tutte espressioni di uno spirito post-femminista che viaggia tra il serio (Le Tigre) ed il faceto (Peaches), con suoni che ondeggiano tra il punk ed il trash, tra l’electroclash ed il funk.

Chicks On Speed e Peaches non sono le uniche ad approcciare trasversalmente e con spirito indie il fenomeno electroclash:  l’Inghilterra, in particolare, contribuisce con gruppi  come ladytron e Zoot Woman allo sviluppo del synth pop  di Fischerspooner e Morplay; le prime, al debutto nel 2001 con “604”, conciliano l’approccio sognante all’elettronica di gruppi  come Stereolab e Broadcast e lo sposano con un synth pop che deve molto a gruppi come Soft Cell e New Order, influenze ostentate però in tempi non ancora sospetti, se si considera che “Commodore Rock”, l’ep di debutto, è del 2001. Lo stesso dicasi per gli Zoot Woman di Stuart Price, all’esordio nel 2001 con “Living in a Magazine”, che con le Ladytron condividono fascinazione per il synth pop ed influenze musicali: da notare che Price nel 1999 aveva sconvolto il pubblico big beat della Wall Of Sound con “Darkdancer”, un melting pot di suoni anni ’80 in un momento in cui synth pop era una parola impronunciabile, incorrendo ovviamente in reazioni sdegnate da parte del pubblico alternativo.

La stessa cosa successa ai Faint, gruppo-chiave della Saddle  Creek  di Omaha, etichetta resa celebre dall’emo dei Cursive e dall’alternative folk dei Bright Eyes, quando, dopo un esordio che segue le tracce tradizionali dell’alt country nel 1999 se ne escono con “Blank-Wave Arcade”: new wave della new wave con citazioni di Cure e Devo in bella vista.

Quasi a voler conferire al 1999 il ruolo di anno zero del futuro revival anni ‘80 dell’indie (qui inteso nella sua accezione più generale) lo stesso anno un gruppo newyorchese come i Les Savy  Fav se ne esce con un singolo, “Our Coastal Hymn/Bringing Us Down” che, nella vena dei Nation Of Ulysses più funky e della no wave più disco, inserisce in un contesto postcore ritmiche funk e tempi spezzati, chitarre taglienti ed un cantato stridulo che rappresentano il brodo primordiale del p-funk del 2000, dimostrando come quel suono debba la sua esistenza alle formazioni più sperimentali del postcore degli anni ’90.

Come ad esempio gli Speedking, misconosciuta  formazione  newyorchese che gira sulle coordinate musicali meticcie di Minutemen e Six Finger Satellite di cui è batterista James Murphy, vale a dire colui che, dopo aver lavorato gomito a gomito con Tim Goldsworthy per la realizzazione di “Bow Down to the Exit Sign” di David Holmes (uno come ingegnere del suono, l’altro in veste di produttore) decide di aprire con quest’ultimo la Dfa (Death From Above). Un’etichetta che crea da subito un vero e proprio caso musicale con l’uscita, nel 2002, di singoli come “The House Of Jealous Lovers” dei Rapture e “Losing My Edge” degli LCD Soundsystem (moniker dei i padroni di casa Dfa), ma anche con remix per le Tigre (“Deceptacon”) e Fischerspooner (“Emerge”) che segnano virtualmente un passaggio di testimone, a cavallo tra il 2002 e il 2003, dalla scena electro a quella punk funk: il suono dalle label, col suo connubio tra ritmi elettronici e suoni post-punk arriva come una manna dal cielo per chi è ormai assuefatto alle sonorità anni’80 ma è anche saturo delle sonorità retro-trash di Fischerspooner e compagnia. Allo stesso tempo, nella sua ambivalenza come fenomeno dance ed indie, quel suono riesce anche ad attrarre a sé un’attenzione di critica e pubblico che non si registrava dai tempi dell’invasione della house francese.

E così New York, dopo aver battezzato il revival del garage-rock con gli Strokes ed aver cullato il fenomeno electroclash nel 2001, innesca un anno dopo un fenomeno di massa di recupero delle sonorità del p-funk. Ovviamente bisogna stare attenti alle schematizzazioni: non tutti i pionieri del revival di quei suoni stanno a New York, essendo il Regno Unito di inizio millennio una fucina di produzioni elettroniche seminali: Chicken Lips, Spektrum e Trevor Jackson ( alias Playgroup) sono solo alcuni dei produttori elettronici che sperimentano con la house e le ridanno nuova vita attraverso innesti di dub, electro, funk e disco anni ’80; non  solo: Jackson è anche proprietario della Output Records, straordinario collante tra nuovo e vecchio continente, attraverso edizioni per il mercato inglese dei dischi Dfa e nomi come Colder, Mu e Black Strobe.

Per quanto riguarda il fronte indie, il pubblico rock alternativo viene travolto definitivamente da quei suoni con l’uscita di “Echoes”(2003), secondo disco dei newyorchesi Rapture, rilettura house dei suoni della new wave, prosecuzione ideale della disco mutante di inizio anni ‘80: non solo gruppi p-funk come Gang of Four e A Certain Ratio nel calderone sonoro, ma anche la new wave di Cure e Television e la veemenza del postcore che, come si diceva, per primo aveva pionierizzato quei suoni.

È un flirt travolgente tra danzabilità e rock, tra post-punk e indie rock che ha già parecchi precedenti: dai già citati Les Savy Fav, ai loro eredi ideali, i Liars, che su “They Threw Us All in a Trench and Stuck a Monument On Top” emergono con un interpretazione aspra e senza compromessi delle sonorità p-funk, all’esordio omonimo nel 2000, che giocano con dub e funky, con Gang of Four e Pil, in lunghe suite semi-strumentali che tradiscono anche in questo caso, qua e là, l’origine hardcore.

Affini per sonorità ed influenze ma più classicamente rock, con forti reminiscenze dei Clash, i Radio 4 di “Gotham!” (2003) (disco prodotto proprio da Goldsworthy e Murphy), irresistibile anche se non originalissima l’interpretazione del genere fatta dai Moving Units di “Dangerous Dreams” (2003), perfetto punto d’incontro tra i due filoni creativi in voga (garage e punk funk) i The Fever di “The Red Bedroom” (2004).

Esiste però un copione non scritto che fa sì che ad ogni invenzione sonora degli Stati Uniti segua una risposta dall’altra sponda dell’Atlantico attraverso cui l’input sonoro proveniente dagli  States viene fuso con la tradizione musicale locale, le asperità smussate (solo in parte) da un inarrestabile istinto melodico, il suono masticato e risputato con tasso di gradazione pop decuplicato. Non stupisce allora che due esordi, rispettivamente del 2004 e del 2005, quali il disco omonimo dei Franz Ferdinand e “Silent Alarm” dei “Bloc Party”, compiano ancora una volta il miracolo: i primi macinano Gang Of Four e Blur, Talking Heads e Strokes come se niente fosse ed ottengono il disco dell’anno; simili le influenze dei Bloc Party che però girano su sonorità più malinconiche e drammatiche riuscendo nell’impresa di aggiungere Smiths e Cure all’equazione, in un disco che, pur essendo meno immediato di quello dei loro colleghi scozzesi per molti versi ha il merito di traghettare definitivamente la tradizione più classica del pop inglese nell’era del punk funk .

Per la verità la definizione “era del punk funk” è un po’ iperbolica, perché se il punk funk è la riscoperta di inizio decennio più appariscente, c’è, più in generale, una rilettura dell’intero canovaccio post punk inglese che sconfina ai due lati dell’oceano: alcuni gruppi rileggono gli Xtc (passando ovviamente anche attraverso i Blur), come gli Hot Hot Heat di “Make Up the Breakdown” (2002), i Futureheads dell’esordio omonimo del  2004 e i Dogs Die In Hot Cars, tutti gruppi che però, complice il  revival di Gang Of Four e compagnia nell’aria, ne approfittano per dare a quei suoni un tiro ed una spigolosità che non avevano mai avuto.

Non è finita qui: sulle tracce di Smiths, Jam e Specials si mettono gli Ordinary Boys di “Over the Counter Culture” (2004), su quelle di Joy Division e Cure gli Interpol di “Turn on the Bright Lights” (2004), tra i Joy Division e il David Bowie Berlinese si collocano idealmente gli Arcade Fire di “Funeral”: tutti riferimenti musicali da prendere con le pinze, perché, se è vero che i suoni della new wave e del post punk possono essere avvertiti distintamente in questi dischi, c’è un’energia ed una verve nell’interpretazione che ci ricorda che siamo negli anni del revival garage e degli Strokes.

Allo stesso tempo il modo in cui tali influenze sono combinate fa sì che il risultato non sia una semplice somma delle parti, bensì qualcosa di nuovo e distinto: in pratica la stessa cosa successa dieci anni prima col brit pop, fase d’oro del pop inglese in cui, lavorando su influenze note e classiche, si dava vita a suoni (parzialmente) inediti secondo quel vecchio motto che dice che nulla si crea, nulla si distrugge, motto che, per quanto riguarda la storia della musica, trova una costante, quotidiana conferma. (Fine)

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