Devendra Banhart - Flying Wig (2023)

 di Monica Gullini

«Diventa sempre più difficile cantare cose impossibili», sussurra Devendra Banhart in Sirens, primo singolo estratto da Flying Wig, in uscita il 22 settembre per Mexican Summer. C’è chi le cose impossibili le desidera e chi, come il musicista statunitense, ex busker scoperto in un locale da Michael Gira degli Swans, non smette di sperare che la vita possa continuare ad accadere e nell’attesa si rifugia in una dimensione notturna, acquatica e amniotica.

Sembra cantare dalle profondità degli abissi, Devendra. Coperto da un drappo blu che gli attraversa il corpo e gli copre gli occhi, moderno Tiresia dalla voce suadente e incantevole, sceglie di riappropriarsi della sua Visione dal fondo del mare, complici un sintetizzatore, suoni caldi ed elettronici, giri di sassofono vertiginosi, rimandi continui agli anni Ottanta e la mano sapiente di Cate Le Bon che lo accompagna dal precedente Ma del 2019.

È un disco pervaso dalla tristezza e dalla malinconia Flying Wig, ma per stessa ammissione di Banhart, «se devo piangere devo farlo con il mio vestito migliore». Non smette di sperare, nonostante il senso di abbandono e di perdita che caratterizzano l’intero album, in cuor suo sa che esiste qualcosa, al di fuori di se stesso, che può condurlo verso la tanto agognata libertà.

«Cerco un’emozione che non riesco a spiegare, cerco un’emozione che non mi faccia andare via»: è una preghiera Feeling, prima traccia del disco, un cantico delle creature ovattato ed elettronico, dal sapore orientale e dal calore quasi tangibile. Sono lontani i tempi in cui Banhart si vestiva solo della sua chitarra, la vita passata è solo un’eco lontana che riemerge, a fine brano, grazie alla chitarra di Nicole Lawrence (eccelsa anche alla pedal steel nel prosieguo del disco), perfetta cornice di un mantra che cattura e sbalordisce.

Sonorità anni Ottanta in Fireflies, brano che risente delle fascinazioni melodiche di Bonny dei Prefab Sprout e non solo: forti anche qui i temi del distacco e della partenza, grazie anche alla chitarra che sembra quasi rincorrere le lucciole in una notte senza luna.

Nun appare, per certi versi, un Giano bifronte: “paranoide androide” nelle immagini del video animato da Joe Cappa (il quale ha donato ai suoi personaggi un tratto simile a quello dei Beavis e Butt Head degli anni Novanta), psichedelica nei loop di chitarra e tastiere e nella batteria fuori tempo, i cui leggeri colpi iniziali rimandano al tema centrale del brano, la frenesia della vita quotidiana. «È stata scritta in un convento nel Nepal settentrionale ed è una metafora: possiamo correre verso qualcosa, correre per qualcosa, rimanere senza qualcosa… Un archetipo con tanta elasticità!»

Possiede un languore berlinese Nun: richiama le distorsioni di Beauty and the Beast di Bowie, il loop infinito di chitarra di Fripp e risente delle fascinazioni del sintetizzatore di Eno, sebbene i due testi vadano in direzione ostinata e contraria (in Bowie emerge l’eterna lotta tra il bene e il male, con l’ago della bilancia spostato verso la tentazione a seguire il “lato oscuro”; in Banhart la fuga è verso qualcosa che non si esprime a parole ma si estrinseca con la privazione e lo spogliarsi di tutto ciò che è materiale, come chi abbraccia un ordine religioso).

Di nuovo i primissimi anni Ottanta in Sight Seer, quelli del connubio tra un giovane britannico e un giapponese fresco di collaborazione con Bowie (ancora lui!): echi di case di bambù e, sullo sfondo, alberi brillanti. La voce di Devendra è più carezzevole e sinuosa che mai, soprattutto nel ritornello, bryanferryano nella timbrica e nelle atmosfere. Di nuovo il guardare lontano, soffermandosi sul cuore di una donna di cui si ricorda il bacio e a cui si è chiesto il nome (omettendo il proprio) in una notte placida e tranquilla: “non importa davvero / quando stai cercando un modo di ricordare / e vedi che non c’è anima viva su cui fare affidamento / devi essere un turista / quando la luna si fa più vicina.” Non ha paura della follia di otelliana memoria, quella che fa impazzire chiunque si avvicini troppo al pianeta di Astolfo: Banhart è un guaritore, trasforma la disperazione in gratitudine, le ferite in perdono e il dolore in lode, affinché gli errori e i fardelli tornino a essere cose inanimate e senza scopo alcuno.

In Sirens, secondo estratto dell’album, il sintetizzatore si fonde perfettamente con tastiere e chitarre in un sound anni Ottanta che fa da sfondo all’ennesima fuga dal tran tran quotidiano verso quella dimensione acquatica preannunciata da Feeling. Nel video, diretto da Joseph Wasilewski, il dolore e la tristezza ( e la consapevolezza che scaturisce dalla guarigione) trasmigrano di attore in attore tramite il contatto, in piena dicotomia distopia – utopia, «in un mondo in cui solo gli artisti possono candidarsi per qualsiasi posizione governativa, la presidenza è sempre condivisa tra due persone; tutti sono massaggiatori e i massaggi sono obbligatori, piangere è obbligatorio e imposto dalla legge». Aggiunge inoltre Devendra: «Sirens parla dello smarrimento che precede il desiderio, lo spazio tra “tutto fa male” e “oh, c’è un chiodo piantato nella mia schiena”, è come il sollievo misto a paura che deriva dal trovare finalmente il bersaglio. Non l’abbiamo ancora centrato, ma sappiamo dove mirare, ecco dove sta l'”Eppure” di questa canzone». Un altro tema che sembra prevalere in tutto l’album è quello degli ostacoli trasformati in antidoti. «Voglio dire, che sfortuna, vero? “Solo la violenza mi terrà sempre stretto”, ma se non c’è modo di liberarsene, l’unica opzione sana è imparare a danzare con essa. Questo è tutto un testo… Musicalmente volevamo che sembrasse di ballare da soli, di piangere in mezzo a una folla, e in qualche modo anche di rilassarsi in quella malinconia, nel lato sensuale del dolore, nel lato luttuoso della gioia.»

La consapevolezza (e la conseguente catarsi) è il filo conduttore dell’intero album: la corale Charger, poggiata su di un tappeto di piano e di suoni elettronici, parla di smania di vivere che se ne va; la title track, Flying Wig, ipnotica nel basso che diviene un tutt’uno con gli arpeggi di una chitarra malinconica e gli echi di un sintetizzatore lontano, è una danza solitaria che anela al cielo.

In Twin, gotica nelle linee di basso e nelle tastiere spinte all’estremo sopra a una batteria sincopata ci sono tutti i più grandi rappresentanti degli anni Ottanta: i Cure di Disintegration, il Bowie di Never Let me Down, i Depeche Mode di The landscape is changing, la chitarra dei Simple Minds in New Gold Dream e il basso fretless di Mick Karn dei Japan. Estratto come primo singolo, il video del brano (diretto da Matt Muir e ispirato ai film neo-noir degli anni ’80), racconta come trovare connessione e bellezza (“la cosa preziosa al centro di tutto ciò che hai desiderato“) nei corsi e ricorsi storici che la vita ci offre.

Visioni di isole in Africa in May (di nuovo Sylvian e Sakamoto nella fase iniziale della loro collaborazione, quando il primo militava ancora nei Japan e l’altro nei Yellow Magic Orchestra), piccola perla di ispirazione orientale completamente affidata alle tastiere e al sintetizzatore, perfetto ponte verso il finale commovente di The party. È un brano in cui riecheggia molto il passato folk del musicista statunitense riarrangiato in chiave elettronica e corale, con un sottofondo di organo e la voce di Banhart a dipingere tutte le sfumature di un amore che sarebbe potuto essere e invece non è stato: “so che non mi ami e che è vero / so che ci hai provato / amore / e l’ho sempre saputo“.

Saluta e se ne va, Devendra, svanendo in quella malinconia acquatica con la quale ha scelto di abbellire l’intero album; forse ai piedi del vestito blu che indossa nell’artwork del disco ha una coda e sinuoso come la sua voce è tornato nelle profondità degli abissi, o forse lui e Cate Le Bon sono ricomparsi sulla terra e insieme ascoltano i Grateful Dead nello chalet di Topanga in cui tutto ha avuto inizio.

Qualora voleste immaginarli insieme, recuperate l’illustrazione del messicano Gabriel Pacheco in Arenas Movedizas di Octavio Paz, quella in cui una figura dalla capigliatura blu abbraccia di spalle un uomo privo di sensi e cerca di riportarlo alla vita. È così che è iniziato il mio viaggio insieme a loro.

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