Bruce Cockburn – O Sun O Moon (2023)

di Max Giuliani

Dopo il lussureggiante e strumentale Crowing Ignites del 2019, Bruce Cockburn alla vigilia del 78esimo compleanno torna con un album di canzoni.
La musica del canadese, forse il più chitarrista fra i nostri cantautori del cuore, mi investì in pieno tanti anni fa con In the Falling Dark, un album di poco successivo alla sua conversione al cristianesimo. Dentro c’era quella indimenticabile preghiera che era Lord of the Starfields, un inno che celebrava il creatore e il creato. O Sun O Moon trabocca di quell’ispirazione e segue il filo di quei temi, che non si è mai interrotto: ma l’età è un’altra, e i tempi non sono gli stessi. Non siamo più negli anni ’70 ma nei disperati anni ’20 del 21esimo secolo, quelli delle pandemie, della crisi ambientale, della siccità e della paura atomica.

Con l’età poi l’indignazione politica si è fatta sguardo doloroso, la sensibilità al sacro è un po’ meno contemplazione dell’universo e un po’ più consapevolezza della precarietà della vita terrena. Che poi, se dovessimo considerare la qualità degli album come indice di buona salute, O Sun O Moon ci avvisa che Cockburn potrebbe seppellirci tutti, ma non è questo il punto. Il punto è quello sul quale mette in guardia Matteo, 24-42: “Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà”. E Cockburn, proprio nella traccia di apertura, quasi dylaniana, fa sapere che i tempi sono quelli che sono, ma lui è spiritualmente desto e gagliardo: “Urlo di rabbia, urlo di dolore / Arriva il caldo, non c’è sollievo (…) Il tempo chiede il suo pedaggio / ma nella mia anima / non mollo”. Nella sua lingua: “I’m on a roll”, qualcosa del tipo “sto alla grande”, “sono in ballo”.

Orders è una canzone sul comandamento dell’amore, quello che si riserva al giusto e al misericordioso come al crudele (“La lista è lunga, se ricordo bene / I nostri ordini dicevano di amarli tutti”). Ed è sempre questione di amore in Push Comes to Shove (“Ciò che andrà male andrà male / ciò che andrà bene andrà bene / Alla fine dei conti / si tratta solo di amore”), con la sua chitarra ancora sopra a spazzole e rullante, uno dei pezzi in cui Bruce duetta con Shawn Colvin.

Per Cockburn essere “on the roll” vuol dire anche essere attivamente impegnato nella sua comunità. Apprendiamo che tre dei brani dell’album risalgono a un ritiro a Maui col dottor Jeff Garner, capo pastore della San Francisco Lighthouse Church. In quell’occasione Cockburn scrisse questa terna di canzoni in fondo alla quale c’è la sorpresa che ti fa trasalire. Into the Now e Colin Went Down To The Water sono rilassati e gioiosi inni alla fede e alla bellezza, fra gospel e country; ma poi arriva King of the Bolero, irresistibile, decisamente enigmatica, anomala nella cornice dell’album ma forse è solo l’altra faccia di tutto il discorso: è pur sempre di blues che parliamo, è musica che anche quando guarda al cielo sa che quaggiù santi e peccatori camminano sullo stesso lato della strada.
Segnalo a margine che nella seconda e nella terza delle canzoni di Maui c’è Sarah Jarosz al mandolino e alla voce.

Us All è una canzone su accoglienza e fratellanza (“Eccoci di fronte alla scelta / tapparelle e muri o un abbraccio aperto”). E To Keep the World We Know, si intuisce dal titolo, è a tema ecologico. Tipicamente cockburniana, col valore aggiunto della partecipazione di Susan Aglukark che canta dei versi in lingua Inuit.

In When the Spirit Walks in the Room torna il Cockburn con quella venatura roca e notturna nella voce (ma è davvero una bestemmia pensare a Tom Waits?) che ci aveva sorpreso un paio di pezzi prima: “Manhattan o Dakar / non fa differenza dove sei / non importa cosa pensi / o se fumi o se bevi / Sei un filo sul telaio / quando lo spirito entra nella stanza”.

Haiku è uno strumentale, eccola la chitarra di Cockburn in tutto il suo splendore. Non un brano spettacolare, ma un passaggio meditativo con un tappeto morbido di percussioni e di fisarmonica prima del crescendo finale: che vuol dire O Sun by Day, O Moon by Night, invocazione al sole e alla luna che illuminino il cammino verso la gloria, e When You Arrive che immagino riferirsi a quello che raccomandava l’evangelista citato poco più su e che, circolarmente, torna dove l’album era iniziato: è una canzone sul farsi forza e attendere, sulla fine dei tempi e sugli orrori terreni, per i quali l’unica consolazione, l’unico sprazzo di paradiso, è la musica (“A colazione Mahler e caffè / A cena Lightnin’ Hopkins e segale”); il testo è tutto giocato su immagini bibliche di rovina e resurrezione, “E i morti canteranno / ai vivi e ai semi-vivi / Le campane suoneranno / quando tu arriverai”. Dato il tema e il senso della canzone finale, è molto bella e simbolicamente forte l’idea di radunare tutte insieme le voci che nell’album si sono affiancate a quella di Cockburn (Allison Russell, Buddy Miller, Ann e Regina McCrary, Sarah Jarosz, Shawn Colvin), come un coro gospel che saluta quella venuta.

L’album è davvero eccellente e splendidamente suonato (produce Colin Linden). È un lavoro, sì, fortemente religioso, ma quando l’ispirazione è alta musica di questo genere riesce a parlare direttamente anche a chi si sente estraneo a quel sentimento. Non è musica confessionale, insomma, la fede cristiana è la posizione della quale Cockburn canta un’angoscia e una speranza nella quale ci riconosciamo. Forse perché quella vena blues, impreziosita qua e là dalla voce arrochita che è evidentemente un regalo degli anni, tiene costantemente collegata l’anima con le cose terrene e con i sensi; o forse perché, andando avanti con l’età, la fede si fa una questione più pratica e concreta che a vent’anni. Qua si parla di salvare la buccia, altro che campi di stelle.

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